Natura morta, protagonismo pittorico degli oggetti e rappresentazione illusionistica sono categorie, in passato ampiamente frequentate dalla storia dell’arte, che oggi tendiamo a percepire come marginali rispetto alle correnti di ricerca più diffuse, tendenzialmente compatte nel convergere in ambito figurativo verso una sorta di antropomorfismo onirico in cui le sembianze umane sono pretesto per scandagliare a vari livelli le profondità dell’inconscio individuale o collettivo. Se fino a un certo punto sembrava che la Pop Art avesse saturato ed esaurito le possibilità di presentazione dell’oggetto in quanto puro dato di fatto elevato a icona, la pittura, per un periodo procedendo quasi in sordina, ha continuato a interrogarsi sulle possibili modalità di restituzione del visibile e su quale significato i diversi risultati di questo tentativo possano avere in rapporto al nostro concetto di realtà. Un campo di indagine privilegiato per tali ricerche non poteva che essere ancora quello degli oggetti, apparentemente neutrali nel loro essere inanimati e spesso seriali, ma a ogni nuovo sguardo sempre più sfuggenti e ambigui, indipendentemente dallo stile e dalla tecnica con cui ciascun artista decida poi di evocarli sulla tela sotto forma di immagini.
Due ricerche esemplari riguardo alla diversità di esiti a cui questa riflessione può dare luogo sono quelle della pittrice irlandese Mairead O’hEocha (1962, Dublino, IR) e della tedesca Helene Appel (1976, Karlsruhe, DE), a cui la galleria P420 di Bologna dedica in contemporanea due personali, intitolate, rispettivamente, Light Spells Enter e On the Cutting Board. La prima è caratterizzata da una pittura compendiaria in cui i soggetti vengono modellati da pennellate decise che, pur dichiarandosi apertamente come tali, assolvono spontaneamente sia alla funzione strutturale del disegno e sia alla modellazione visiva delle superfici. Nella seconda, invece, ciò che viene sempre lasciato a vista a tradire la convenzione illusionistica alla base della rappresentazione pittorica, è la tela grezza di fondo, sulla quale invece le immagini sembrano voler ricreare l’essenza dei soggetti rappresentati attraverso un’estrema riduzione delle tracce materiche del medium pittorico.
Le due artiste, quasi agli antipodi per estetica e approccio alla dimensione pratica del fare, sono accomunate da un’appassionata sensibilità nell’entrare in relazione con i misteriosi anfratti poetici di oggetti comuni e da un’analoga propensione a restituirne l’enigma attraverso una figurazione che si sarebbe tentati di inquadrare come estrema propaggine del Realismo Magico. In Helene Appel quest’intento si declina in una tersa e minuziosa resa di frammenti di realtà ostentatamente residuali che, riprodotti in scala 1:1, assumono una valenza quasi sacrale. In Mairead O’hEocha, invece, la stessa attitudine sfocia nella teatralizzazione di scorci domestici in cui la disposizione degli oggetti abbozza labili ipotesi narrative, a cui alludono anche i titoli autobiograficamente criptici delle opere. In entrambi i casi l’effetto straniante è dato dal fatto che gli oggetti raffigurati, oltre a essere perfettamente riconducibili a ciò che ci circonda quotidianamente, sembrano animati da un’energia interiore che li fa vivere di vita propria (sia che li si consideri come appartenenti all’habitat fittizio della rappresentazione e sia che li si guardi come puri brani di pittura).
La prima sala della galleria è dedicata a Mairead O’hEocha, che presenta qui una serie di dipinti realizzati tra il 2020 e il 2022 durante il periodo pandemico, in cui per l’artista, come per tutti noi, l’ambiente domestico e le immagini veicolate dai dispositivi digitali sono temporaneamente diventati l’unico orizzonte visivo accessibile. Ogni composizione è incentrata su un grande contenitore trasparente posizionato su un tavolo e inquadrato da elementi ordinari che fungono da quinta scenografica (come tende, battenti di porte socchiuse o piante fogliacee), attorno al quale gravitano altri oggetti più piccoli in pittoresco disordine. A prima vista nulla di anomalo, ma la luce sulfurea che pervade queste ambientazioni notturne ci allerta immediatamente, istigandoci a chiederci quale sia l’origine dell’ambiguità che percepiamo. L’artista spiega che il chiarore quasi sinistro che vediamo diffondersi da una fonte non logicamente giustificata (che in molti casi sembra posizionata proprio all’interno dei contenitori trasparenti) riproduce la retroilluminazione degli schermi digitali, scelta che proietta la visione in un imprecisato interregno, liminale tra il qui e l’altrove.
La connotazione artificiale e mentale della luce non impedisce all’artista di cimentarsi con una delle prove più virtuosistiche del genere della natura morta, ovvero la riproduzione sulla tela dei riflessi delle superfici specchianti e delle diverse gradazioni di trasparenza a cui lo spessore, la curvatura e la composizione chimica del vetro possono dare luogo. Questa ricerca di veridicità si amalgama senza conflitto con un’intenzione puramente immaginifica nell’interpretare la texture superficiale degli altri oggetti, che talvolta arriva all’intenzionale enfatizzazione di ambivalenze che mettono in crisi la supposta univocità del referente. A titolo di esempio citiamo a questo proposito, come sottolinea il testo critico di Ben Eastham, il caso della tenda che compare sullo sfondo di Noble Sister Widow, October (2022), in cui le pennellate evocano sia le pieghe verticali di un tessuto e sia le ciocche di una capigliatura pettinata. Un ulteriore fattore destabilizzante che accomuna tutti i dipinti è la presenza, in ciascuno di essi, di piccole creature viventi (un pesce rosso nella boccia, un ragno, una mosca, una cavalletta ecc.) che si muovono nella messa in scena, a cui il nostro sguardo non riesce mai ad assegnare un preciso gradiente di realtà.
Nella seconda sala della galleria si cambia completamente registro con la pittura rarefatta di Helene Appel, che scandisce lo spazio delle pareti con una sequenza di tele di dimensioni diverse, ciascuna delle quali è dedicata a uno specifico oggetto, riprodotto a grandezza naturale con stile iperrealistico. L’artista instaura profondi rapporti d’affinità elettiva con gli aspetti più ordinari e banali della quotidianità, celebrando il valore assoluto della contemplazione e della conservazione nell’era dell’impermanenza. I suoi soggetti privilegiati sono i residui delle abitudini umane o lacerti di natura antropizzata, che vengono trasfigurati dalla sublimazione del loro aspetto più prosaico. Stracci, piastrelle, verdure sminuzzate su un tagliere da cucina, scarichi di lavelli, scrollature di tovaglia, ma anche sabbia, rami secchi, chicchi di riso o liquidi versati su un piano sono dettagliatamente dipinti su tele lasciate senza imprimitura, le cui misure assecondano e circondano il verosimile ingombro degli oggetti reali. Ogni sguardo che l’artista dedica al suo modello si traduce in una pennellata esatta e misurata che ne rivela una specifica qualità sensibile e che richiede all’osservatore un tempo d’indagine altrettanto dilatato per confrontarne l’aderenza con il corrispondente archetipo mentale di riferimento.
Appel viviseziona con impeccabile lucidità analitica le circoscritte porzioni del visibile su cui decide di concentrarsi, per poi restituirne l’analogo pittorico mettendo in campo un ampio armamentario di artifici elaborati da secoli di pittura trompe l’œil. Ma, proprio quando la natura fittizia di questi solenni depositi di contingenze visibili sembra prendere il sopravvento e la tentazione di avvicinarsi al dipinto e di toccarlo per accertarsi della reale consistenza di ciò che vediamo raffigurato diventa irresistibile, si impone all’attenzione la trama grezza della tela come ineludibile presupposto dell’oggetto dipinto, che viene così ricondotto nel limbo delle immagini. Nella cruda compresenza dialettica tra presentazione e rappresentazione il velo dell’illusione si squarcia nel momento della sua massima esaltazione, rivelando la sofisticata matrice concettuale del lavoro dell’artista. Se la trama grezza della tela sembra competere per credibilità e presenza con le finzioni che ospita, mentre a loro volta le figure sembrano volersi mimetizzare nell’ordito aggiungendo ulteriori pattern astratti al suo regolare intreccio di fili, è il quadro stesso nel suo insieme a mostrarsi come oggetto e come dispositivo di coscienza atto a indagare la struttura del visibile. A questo modo l’atto del dipingere viene analizzato e scomposto nei suoi elementi costitutivi e si attua nell’irrisolvibile tensione tra la riproduzione fedele e le incessanti possibilità di trasformazione di una materia che diventa immagine.
Info:
Mairead O’hEocha. Light Spells Enter
Helene Appel. On the Cutting Board
25/02/2023 – 29/04/2023
P420
Via Azzo Gardino, 9 Bologna
www.p420.it
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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