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Manuel Gardina: quando l’arte è Borderland

Manuel Gardina: quando l’arte è Borderland

In occasione di ArtVerona la Collezione Carlon, eclettica e ampia raccolta di opere dall’antichità ai giorni nostri (comprensiva di dipinti, sculture, incisioni, disegni, miniature, libri antichi ma anche maioliche, bronzi, avori, mobilio e manufatti decorativi) iniziata più di cinquant’anni fa dall’imprenditore veronese Luigi Carlon, ha presentato al pubblico la sua ultima acquisizione: Borderland di Manuel Gardina (Brescia, 1990). Il lavoro, esposto in una sala dedicata a Casa Museo Palazzo Maffei, prestigiosa sede della collezione nella centralissima Piazza delle Erbe, è una commissione site-specific, nata dall’interesse per la scienza, l’innovazione e i nuovi linguaggi di un collezionista che ha fatto del futuro la cifra centrale sia del suo successo professionale sia dei suoi interessi. Impossibile, in base a quest’approccio, non confrontarsi con l’intelligenza artificiale e non chiedersi quali sono le prospettive e le contraddizioni che la sua disponibilità sempre più allargata può dare all’arte. Borderland è una grande tela digitale sensibile, che si trasforma attraverso l’interazione con il pubblico. Utilizzando sensori di movimento e di profondità per rilevare la presenza degli esseri umani al suo cospetto, l’opera, grazie all’intelligenza artificiale, rielabora costantemente diciassette opere della collezione selezionate dall’artista fondendole a coppie, per poi inserire in tempo reale nell’immagine che ne risulta la sua proposta di decodificazione degli spettatori rilevati. Un monitor a supporto di quello ambientale in cui vive l’opera mostra il backstage dell’algoritmo generativo, autore di scenari irripetibili e in continuo divenire, resi ancora più immersivi da un accompagnamento sonoro che sembra tradurre in polifonia armonica l’interno lavorio della macchina digitale. Per approfondire le ragioni di questo lavoro pioneristico, abbiamo rivolto alcune domande al suo autore.

Manuel Gardina, “Borderland”, 2024

Emanuela Zanon: La rielaborazione delle immagini della collezione che avviene nell’opera crea una singolare compresenza di condensazione ed espansione. Se da un lato l’algoritmo prova a sintetizzare i caratteri salienti dello stile di maestri tra loro molto differenti (come Fontana, Magritte, Picasso, Canova, Balla o de Chirico) per restituirli attraverso il minimo comune denominatore di una “pennellata digitale” uniforme, dall’altro tale restituzione avviene in una dimensione che proietta all’infinito la bidimensionalità fittizia della tela. Quali riflessioni o scoperte ti ha suscitato questa sorta di coincidentia oppositorum?
Manuel Gardina: Osservando le opere della collezione, emerge come la tecnologia a disposizione degli artisti fosse spesso impiegata per culminare nella creazione di un oggetto; con Borderland era chiaro che avrei dovuto concentrarmi maggiormente sul processo. Ricordo i primi esperimenti che feci con l’intelligenza artificiale generativa nel 2018. Era uno strumento estremamente grezzo, incapace di dialogare con un certo grado di coerenza con l’operatore, producendo risultati spesso discutibili. Tuttavia, era chiaro che ciò che si agitava sotto quelle immagini distorte e corrotte era così distante dalla realtà di allora che rasentava la magia per me. Mi sentii per un attimo come gli indigeni de “Il mondo alla fine del mondo” di Luis Sepúlveda, con la certezza di trovarmi davanti a uno strumento in grado di alterare la mia immediata percezione del presente. Parlando di percezione mi viene in mente il documento “Attention is All You Need” (2017), che ha introdotto il concetto di Transformer, un’architettura che ha rivoluzionato l’elaborazione del linguaggio naturale (NLP) e altre aree dell’intelligenza artificiale. Facendo un parallelismo, l’attenzione umana tende a concentrarsi sugli stimoli più rilevanti, filtrando le distrazioni. Allo stesso modo, il meccanismo di self-attention nei Transformer “pesa” ogni parte delle immagini della collezione e decide a cosa dare maggiore attenzione, ignorando dettagli irrilevanti. Volevo creare un’opera che desse a noi la capacità di partecipare a questa decisione, in modo che la nostra presenza avesse un peso sul modo in cui la AI elabora e pone l’accento sugli elementi più significativi della collezione. Ognuno è portato a dare più importanza ad alcuni elementi rispetto ad altri, quindi ho pensato che il concetto di continua evoluzione fosse centrale. Il meccanismo di rielaborazione delle opere è costante, e così la nostra attenzione verso l’opera cambia. Mi piace includere questo modo di pensare nel mio processo, mi aiuta a sfuggire dal circolo autoreferenziale tipico del mio stesso medium. Solleva inoltre domande affascinanti: come decidiamo cosa è irrilevante? E, soprattutto, chi decide cosa merita attenzione?

Manuel Gardina, “Borderland”, 2024

Molto interessante è anche il fatto che l’AI, nutrita da un set di dati predefinito, tenti di ipotizzare a livello visivo cosa sia l’essere umano confrontando il pubblico che interagisce con i suoi sensori con la sua personale memoria artistica. Il risultato è spiazzante: in certi casi le sembianze umane di dipinti figurativi, come ad esempio “La cantante argentina” di Boldini, mantengono un’indiscutibile riconoscibilità in quanto tali, mentre una donna reale “scannerizzata” dall’algoritmo può assumere l’aspetto di una colonna o di un ancor più astratto viraggio cromatico del paesaggio esistente. Cosa ci dicono questi risultati del mondo in cui l’AI ci comprende?
Personalmente, condivido il punto di vista del filosofo Luciano Floridi, secondo cui il modo di intendere il comportamento della AI sia quello di un divorzio: da un lato, la capacità indiscussa di svolgere compiti complessi; dall’altro, l’impossibilità di attribuire un senso al suo operato. Nonostante le profonde differenze tra noi e l’AI, e il fatto che ci troviamo ancora in una fase di sviluppo e comprensione di queste tecnologie, è straordinario constatare come, per la prima volta nella storia umana, sia possibile ottenere risultati tanto impressionanti da uno strumento che, in sostanza, cerca di simulare il comportamento dei nostri neuroni. Essere identificati e ipotizzati erroneamente da una AI, ad esempio una colonna anziché una persona, viene spesso definita “allucinazione” o “sogno”. Condivido l’idea che sia utile demistificare il comportamento delle AI quanto più possibile. Ciò che osserviamo può essere paragonato a un bias cognitivo, inteso come distorsioni nei dati o nei modelli, che talvolta porta a decisioni inaspettate e all’apparenza irrazionali. Questo comportamento nel corso della storia dell’arte dei media è osservabile già negli anni ‘60 in artisti come Vera Molnar e Roy Ascott, che hanno esplorato simili dinamiche. Il loro lavoro dimostra che non è mai stato necessario un processo perfetto per creare opere d’arte significative. Similarmente, con l’intelligenza artificiale e la programmazione creativa le chance sostituiscono in parte l’intuizione, permettendo all’artista di dedicare molta più attenzione al processo di programmazione dell’opera (input) lasciando che la macchina fornisca i risultati (output).

Manuel Gardina, “Borderland”, 2024

Quale tipo di collaborazione e gerarchia si instaura tra le opere-fonte, l’essere umano e l’AI in Borderland e cosa ci anticipa questa triangolazione del modo in cui nel futuro le nuove tecnologie condizioneranno la nostra percezione della realtà?
Per immaginare un futuro possibile vorrei fare un piccolo esempio su come ci influenzano oggi. Pensiamo ai magazzini dell’azienda americana The Feed, che occupano circa 3.250 metri quadrati e sono progettati per essere completamente automatizzati. Decine di robot, guidati dall’intelligenza artificiale, raccolgono ogni giorno fino a 50.000 articoli pronti per la spedizione. Questo trend non si limita alla logistica, ma si estende a grandi filiere agricole e a molti altri settori. Ciò dimostra che, invece di creare sistemi che agiscono autonomamente nel mondo, plasmiamo il mondo affinché essi possano funzionare. Trasformiamo l’ambiente in modo che sia compatibile con i sistemi informatici.  In quest’ottica, diventa evidente come l’evoluzione tecnologica stia man mano ridefinendo gli spazi e le modalità operative all’interno delle nostre società. Se facciamo un passo indietro e consideriamo il contesto delle opere d’arte, possiamo notare come anche una semplice miscela di pigmento possa rappresentare una tecnologia in grado di estendere la nostra capacità di espressione personale nel tempo. Questo è ciò che per me rende l’uso della tecnologia così coinvolgente: nonostante tutto ci spinge sempre a pensare a cosa verrà dopo, a cosa è possibile. Borderland, come buona parte dell’arte interattiva e generativa, utilizza la tecnologia per adempiere a una funzione specifica. È programmata per ospitare dei sensori di profondità ed una AI che analizza e ridimensiona le opere della collezione diverse volte pixel per pixel, come per osservarle sotto molti punti di vista, fino a unirle a una descrizione. Ciò permette alla macchina di concentrarsi sugli aspetti che caratterizzano maggiormente l’opera. Allo stesso tempo, trovandosi davanti all’opera, lo spettatore non è mai del tutto passivo; è parte fondamentale del processo creativo in quanto la sua sola presenza modifica l’attenzione che l’intelligenza artificiale pone sulle opere della collezione. Lo spettatore partecipa attivamente alla creazione del significato dell’opera. Questo approccio fa leva sull’idea che abilitare il dialogo attivo con le nuove tecnologie possa essere un’estensione delle modalità con cui percepiamo la nostra cultura e come costruiamo nuova conoscenza. Anticipa un futuro in cui la collaborazione con l’intelligenza artificiale non riguarderà solo l’efficienza o l’innovazione, ma ci spingerà piuttosto a riflettere su come l’influenza reciproca tra uomo e algoritmo influenzerà il nostro modo di comprendere e vivere la realtà.

Info:

www.palazzomaffeiverona.com

www.manuelgardina.com


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