Mario Merz (1925-2003) è uno dei protagonisti indiscussi della storia dell’arte del ‘900 e la figura forse più emblematica dell’Arte Povera che, nata a Torino tra gli anni ‘60 e ‘70 come presa di posizione antitetica rispetto ad altre tendenze allora in voga, come il Pop americano e ai valori sociali a esso connessi, fu (assieme alla Transavanguardia allora ancora da venire) uno degli ultimi movimenti artistici italiani ad avere un peso internazionale. Come dimostra la grande mostra inaugurata lo scorso ottobre alla Bourse de Commerce di Parigi, grande fu non solo la notorietà di questa corrente, ma anche l’influenza che le opere dei suoi protagonisti (Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio) esercitò e continua tutt’oggi a esercitare sulle generazioni più giovani[1]. L’aspetto rivoluzionario di questi artisti risiedeva nell’attitudine anticonvenzionale e non dogmatica che li portò a scardinare la distinzione tra i generi per creare le prime “installazioni” della storia dell’arte, in cui pittura, scultura, disegno e fotografia potevano convivere simbioticamente, anche assieme ad azioni di stampo post happening. Realizzate con materiali semplici, di frequente desunti dalla sfera quotidiana o naturale (come terra, lattuga, acqua, carbone, alberi, bicchieri, corpi viventi di animali ed esseri umani) o dal mondo del lavoro (come lastre di acciaio inossidabile, lingotti di piombo, lampadine, travi di legno, tubi al neon), si proponevano come dispositivi attivatori di scambi energetici che partivano dalla materia per trasmettersi in via emozionale agli spettatori.
L’eredità di Merz, come quella di tutti gli autori di valore assoluto che hanno segnato un’epoca, è un patrimonio da mantenere vivo affinché il suo apporto non si riduca a un’assodata formula, destinata a svuotarsi nel tempo se non viene costantemente corroborata da nuovi studi e nuovi sguardi. E proprio all’intento di rileggere l’opera del maestro rilevandone la stringente attualità risponde la preziosa mostra in corso a Verona alla Galleria d’Arte Moderna Achille Forti, una produzione interna attuata in sinergia con la Fondazione Merz di Torino e con la Rocca Albornoz – Museo nazionale del Ducato di Spoleto per l’imminente centenario della nascita del maestro. L’attenta selezione delle opere in mostra, effettuata dai curatori con l’appoggio scientifico della Fondazione Merz, è stata orientata dall’intento (riuscito) di sintetizzare gli elementi più rappresentativi della complessa poetica dell’artista in funzione dello spazio espositivo e di far dialogare tra loro opere realizzante in periodi diversi e con media differenti in ragione di una loro rilettura attraverso la lente della riflessione critica contemporanea. Il progetto si inscrive in un programma ad ampio respiro, a cui afferisce anche la mostra di Giulio Paolini dello scorso anno, che la Galleria d’Arte Moderna Achille Forti sta portando avanti di concerto con ArtVerona, di approfondimento di una specifica linea di ricerca nata in Italia con Lucio Fontana negli anni ‘40, poi esplosa in modo conclamato negli anni ‘60, che ambiva a trasformare lo spettatore da fruitore ad agente attivo dell’opera.
Il fulcro generativo della mostra veronese di Mario Merz non poteva essere che uno dei suoi iconici igloo, strutture installative, di regola costituite da tubolari in ferro autoportanti, che compaiono in un’infinita serie di variazioni nella sua produzione a partire dal 1968, anno in cui realizza l’igloo Object chache-toi. In antitesi all’ovvia tentazione di assimilarli a spazi abitativi, per Merz questi micro-habitat, nonostante ricalchino la forma più arcaica dell’abitare, non hanno alcuna valenza funzionale o architettonica, ma sono concepiti come spazi mentali di libertà dove pensare senza gerarchie e costruire un rapporto più consapevole con la natura attraverso gli elementi generativi della sua arte (di volta in volta aggiunti agli igloo) come le linee numeriche o verbali di neon, il disegno, oggetti di uso comune o fascine di sterpaglia. L’igloo in mostra (Le case girano intorno a noi o noi giriamo intorno alle case?, 1999) si presenta come una struttura aperta, la cui permeabilità tra interno ed esterno è espressione paradigmatica della concezione della società dell’artista all’insegna della collettività e dello scambio, un inno alla libertà da parte di chi soleva affermare che «il male peggiore del mondo è il muro». La completa fruizione dell’opera richiede di girarci attorno, per leggere le parole che compongono il titolo su una serie di neon collegati da cavi elettrici e collocati su piastre irregolari di ardesia, materiale naturale ricorrente nei suoi lavori degli anni ‘90. Se a noi è precluso l’ingresso, l’igloo è attraversato da grandi sagome bidimensionali nere di animali primordiali disegnate su luminosi pannelli di acetato, in una processione che coinvolge anche il resto dello spazio espositivo. Gli animali, elementi energetici associati alla naturale prolificazione della vita, comparendo come disegni, sono qui espressione anche di quell’intersezione anti-gerarchica tra volumetria tridimensionale e bidimensionalità che è uno dei tratti salienti della poetica dell’artista.
L’altra grande installazione presente in mostra associa il dipinto La natura è l’equilibrio della spirale (1976) e la scultura Senza titolo (2002) composta da giornali, vetro e neon. Nel primo, una tela grezza ospita l’altrettanto iconica progressione numerica di Fibonacci, precocemente assorbita nella ricerca dell’artista in quanto codice della crescita organica sotteso alle apparenze, e l’elemento della spirale incarnato dal guscio della chiocciola, ulteriore manifestazione della proliferazione matematica che governa la natura e l’universo. A sottolineare l’interdipendenza dei temi della geometria, del tempo, della natura e dell’energia rigenerante assurti a valori assoluti, nella seconda opera la sequenza numerica compare associata a frammenti di vetro e a pile di quotidiani vecchi (oggetti per loro natura obsoleti in un tempo immediatamente successivo alla loro produzione) che rimandano al concetto geologico di stratificazione del tempo. Questi ultimi due elementi, inoltre, introducono lo stretto legame di Mario Merz con la storia dell’arte, essendo direttamente riconducibili sia alla sfaccettatura della visione proposta dal Cubismo sia al recupero di ascendenza dadaista degli scarti della vita nell’arte. È interessante osservare ancora nell’ottica di una costante riflessione sui linguaggi artistici a lui precedenti anche la bellissima serie di disegni in mostra, quasi tutti datati 1978, dove è evidente quanto la rielaborazione dei portati delle avanguardie novecentesche (come l’immediatezza del segno espressionista, la dinamicità lineare del futurismo e l’emanazione energetica cromatica di matrice astrattista) sia perfettamente integrata nelle specificità del suo linguaggio rivoluzionario, radicato nelle forme della natura e orientato in direzione di una sostanziale tridimensionalità della pittura.
[1] Nella mostra parigina, curata da Carolyn Christov-Bakargiev, ai lavori dei tredici artisti del gruppo si affiancano opere di altrettanti autori la cui pratica costituisce una forma di risonanza con l’Arte Povera, come David Hammons, William Kentridge, Jimmie Durham, Anna Boghiguian negli anni ’80, Pierre Huyghe, Grazia Toderi, Adrián Villar Rojas negli anni ’90, Mario Garcia Torres, Renato Leotta, Agnieszka Kurant, Otobong Nkanga, Theaster Gates e D Harding negli anni 2000.
Info:
Mario Merz. Il numero è un animale vivente
11/10/2024 – 30/03/2025
a cura di Patrizia Nuzzo e Stefano Raimondi
Palazzo della Ragione
Cortile Del Mercato Vecchio, 10 – 37121 Verona
www.gam.comune.verona.it
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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