L’estetica dello stereotipo. La pulizia interiore dello standard. L’esclusività del minimalismo e l’etica del bianco. Comodità essenziale, bellezza rigorosa, geometrie dell’abitare. A cento anni dalla fondazione dello Staatlitches Bauhaus di Weimar, emblema dell’architettura e del design dell’epoca moderna, lo “stile” è diventato un dogma imprescindibile in ogni dettaglio dell’habitat umano. L’impressione è che l’eredità dei progetti visionari di quel manipolo internazionale di artisti-artigiani si sia annacquata in un generico formalismo finalizzato alla razionalità produttiva che ne imita blandamente i suggerimenti esteriori in un’illusione di funzionalismo. Una quieta patina omologante sembra ovattare le nostre attività lavorative e ludiche, tutte accuratamente previste e contenute da uno scenario artificiale in cui ciascuno può ottimizzare il proprio spazio vitale in modo da sentirsi speciale ed efficiente (esattamente come chiunque altro).
Il crollo delle utopie e delle grandi narrazioni è un segno dei nostri tempi, è un dato di fatto che se da un lato ci ha lasciati orfani di entusiasmanti ideologie, da un altro punto di vista ci ha consegnato il mondo come una sterminata distesa di simboli neutralizzati dalla desemantizzazione in cui ogni elemento appare potenzialmente combinabile e compatibile con qualsiasi altro. Sorprendentemente, il risultato di questa individualizzazione del senso non sfocia nella più sfrenata anarchia ma in un conformismo ancora più rigoroso, nonostante non sia sancito da nessuna limitazione oggettiva.
Riflette su queste tematiche Fake marble doesn’t cry a GALLLERIAPIÙ, un progetto espositivo di Matteo Cremonesi e del duo Furlani-Gobbi a cura di Lisa Andreani, che ruota attorno al tema del design, alla bellezza dello standard e alla brandizzazione. La mostra mette in scena un rarefatto landscape domestico monocromatico bianco, un’oasi di carattere fittizio in cui gli arredi sono oggetti scultorei modulari che oppongono la loro enigmatica integrità allo sguardo indagatore dello spettatore. Le opere, concepite come prelievi dal quotidiano epurati da ogni residuo umano, risultano familiari e stranianti al tempo stesso e sono accomunate da una sorta di macro-personalità asettica che lascia a tratti trapelare il rumore di fondo della storia e il mormorio del dubbio.
Il lavoro fotografico di Matteo Cremonesi indirizza uno sguardo poetico e analitico su una serie di oggetti utilitari (come elettrodomestici e attrezzature da ufficio) che caratterizzano il nostro habitat quotidiano e lavorativo e che la globalizzazione ha diffuso a ogni latitudine. Il suo obiettivo si concentra su dettagli ingranditi di superfici che enfatizzano la loro derivazione dal mondo dell’industria e del design e che le inquadrature ravvicinate restituiscono come se fossero monumentali prototipi architettonici. La loro irreale politezza incarna in modo esemplare la tipologia di environment che la contemporaneità incoraggia, un ambiente apparentemente neutrale in cui l’andamento delle forme determina le nostre posture e comportamenti. Gli innocui arrotondamenti e le rassicuranti levigatezze che caratterizzano questa tipologia di oggetti fingono di assecondare i nostri sensi per funzionare come agenti di una dolce ma inesorabile colonizzazione visiva e tattile.
La genetica predisposizione di queste forme a essere ovunque senza necessità di adattamenti trasforma la fruizione del mondo in un’esperienza media universale in cui la sperimentazione delle cose diventa un infinito riconoscimento di elementi identici o somiglianti. La vertigine del déjà vu, il già visto prima ancora di vedere e la meraviglia per un incontro con il diverso sempre procrastinato portano l’artista a riflettere sui retroscena linguistici di questa conclamata omologazione. La consapevolezza critica della dimensione ideologica dell’estetica non gli impedisce di prefigurare nuovi orizzonti di sensibilità e di contenuti a partire da questa (indotta) fascinazione epidermica per i materiali e le superfici dell’abitare contemporaneo, assurti a metafora di una futuristica ubiquità spazio-temporale e della conoscenza a priori che ne deriverebbe. In Fake marble doesn’t cry queste suggestioni visionarie vengono messe in relazione con un’inaspettata prospettiva storica: le cornici ordinarie che racchiudono le immagini fotografiche di Matteo Cremonesi ospitano al loro interno (oltre alle istruzioni d’uso lasciate a vista) anche pagine di vecchi volumi di storia dell’arte inerenti all’architettura romanica. Quest’accostamento, che da un lato precisa l’atteggiamento archeologico dell’artista nei confronti dei suoi soggetti, fa emergere un avvincente inventario di analogie formali che confermano i presupposti teorici delle sue intuizioni. Se a prima vista la movimentata estetica romanica sembra la perfetta antagonista dell’interior design in stile Ikea, il moltiplicarsi dei rimandi formali a livello strutturale sottolinea come la massiva diffusione in Europa degli stessi stilemi e canoni architettonici tra il X e il XII secolo fosse conseguenza di un altrettanto pervasivo format ideologico, all’epoca di carattere religioso.
L’analisi delle esplosive conseguenze di questo accostamento stilistico filologicamente improprio prosegue nei lavori di Furlani-Gobbi, che sembrano raccogliere da Cremonesi il testimone della constatazione per estremizzarlo in una produzione di prototipi ibridi generati da un’iperbolica commistione tra i canoni dei due periodi storici. La pietra angolare del paesaggio mentale che gli artisti propongono in mostra è la figura del leone stiloforo, antico guardiano di spazi sacri ed esotico reperto del nostro glorioso passato architettonico. Nel video che apre il percorso espositivo il leone si ritrova immobilizzato al centro di un asettico spazio domestico virtuale come impotente custode di un regno digitalizzato in 3D, un’ambientazione impersonale a metà strada tra un software di home design e un’animazione di fantascienza. Attorno a lui, suo malgrado inerte e pesante anche se fatto di soli pixel, avviene l’incessante scomposizione e assemblaggio di un’austera collezione di mobili prefabbricati, mentre una voce fuori campo racconta come la continua riorganizzazione dello spazio dipenda dagli spostamenti di una colonia di invisibili formiche insediate negli interstizi di vuoto dei materiali. La narrazione, che individua nelle formiche il fulcro di questo microcosmo artificiale, funziona come un condizionamento subliminale che fa crescere un indefinibile disagio sottopelle per l’inquietante somiglianza tra l’ostilità di quell’ambiente diradato e i canoni estetici che orientano l’arredamento dei nostri spazi abitativi.
Il leone stiloforo esce poi dallo schermo per diventare una panca (anch’essa smontabile e convertibile in altri elementi funzionali) al servizio dello stile e della comodità domestica. Irreversibilmente hackerato e corrotto nella sua forma e funzione, svuotato dell’aura di terrore connessa al grande impianto ideologico che simbolicamente era chiamato a difendere in passato e definitivamente sottomesso alla logica del nuovo, la sua funzione si riduce a supporto per la fruizione di piccole utopie domestiche standardizzate. Se i processi produttivi della contemporaneità hanno progressivamente ridotto l’importanza delle abilità manuali, in questo prototipo gli artisti compiono un’operazione inversa, realizzando artigianalmente una scultura che interpreta e sintetizza gli stilemi del design industriale. Lo stesso formalismo minimale ritorna nel corrimano-display che ridisegna lo spazio della galleria e nel portabiti mobile rielaborato come espositore di immagini, entrambi realizzati a partire da una modularità paradigmatica estrapolata dai cataloghi Ikea. Anche in questo caso non si tratta di un’anacronistica nostalgia del passato, ma di un’attenta esplorazione critica dei percorsi creativi e degli spiragli di libertà insiti in ogni linguaggio formalizzato.
Info:
Furlani-Gobbi Matteo Cremonesi. Fake marble doesn’t cry
a cura di Lisa Andreani
13 aprile – 15 giugno 2019
GALLLERIAPIÙ
Via del Porto 48 a/b, Bologna
Matteo Cremonesi, Dark Birch – Sculpture Printer Office – Romanico, 2019
“Fake Marble Doesn’t Cry”, exhibition view, 2019
Matteo Cremonesi, Dark Birch – Sculpture / Washer, Ferhat-pašina džamija, 2019
Furlani-Gobbi, F.M.D.N.C. #02 (video), 2019, video still
Furlani-Gobbi, F.M.D.N.C. #05 (display), 2019, detail
“Fake Marble Doesn’t Cry”, exhibition view, 2019
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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