Matteo Messori è uno dei giovani artisti italiani tra i più interessanti della sua generazione. In questo dialogo ha raccontato di come è nato uno dei suoi ultimi progetti espositivi, la mostra personale “Status” presso gli spazi di Nero — La Factory di Pescara a cura di Maria Letizia Paiato. Tra pittura e scultura – attraverso il concetto di “Antiforma”.
Federica Fiumelli: La mostra “STATUS” doveva inizialmente sancire la chiusa di una residenza artistica che avresti dovuto fare nel mese di marzo a Pescara. Ciò non è stato possibile a causa dell’attuale emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del Covid19. Le opere sono così nate da un paradosso, anziché in situ, nel tuo studio a Reggio Emilia. Un paradosso che racconti proprio nella tua concezione di Antiforma. Come spiegheresti l’Antiforma a qualcuno che ancora non conosce la tua pratica artistica?
Matteo Messori: Il nostro progetto iniziale era proprio quello di attivare una residenza in loco per tutto il mese di marzo. In quel frangente avrei invitato curatori, amici e artisti della zona a visionare il work in progress dell’esposizione. Quindi da un progetto votato alla convivialità, all’immersione totale e contaminante in uno spazio nuovo, è divenuto, come si suol dire, a “porte chiuse”. Le persone che mi conoscono sanno che io non sono per niente una persona introversa, e che con piacere amo esser ospitale verso il prossimo. Questa situazione di “fermo”, che ha toccato tutti, ha ridimensionato la mia persona e il progetto espositivo “Status”. Titolo che dà corpo a tutte le sensazioni provate in una quarantena che ha stravolto le nostre abitudini, lo stare “fermi” in genere significa ben altro. La mentalità contemporanea non è capace di “stare ferma”, mossi dai dettami della vita dobbiamo macinare e carburare finché non ci cedono le gambe dalla stanchezza. Ora che ho portato a termine il progetto espositivo “Status” sono conscio del fatto che lo spazio dove si dà origine alle opere è determinante. Recluso nel mio studio, ho sentito il bisogno di allargarmi, così ho riesumato la falegnameria del mio nonno defunto, trasformandola in una nuova ala del mio studio. Durante le pulizie ho recepito materiali che, così a istinto, ho poi utilizzato per la realizzazione delle opere a Nero — La Factory. Dallo scarto di un luogo carico di energie ho poi dato corpo alle opere che, figlie di un periodo come la quarantena, testimoniano un lascito; e come una calcografia riproducono le emozioni che io stesso ho provato durante il lockdown, con la speranza che siano le stesse sensazioni che si son percepite nel mondo. Sono molto soddisfatto di ciò che è stato portato a termine, il mio unico rimpianto è di non aver goduto di una città bella e intrigante come Pescara. Riguardo all’Antiforma, così di primo acchito, a una persona che non conosce la mia ricerca, direi che è un “ossessione catalizzante” che da autoritratto diviene ritratto del mondo. Mi ritengo un artista spartano, non faccio ricerche sui libri e non seguo nessun tipo regola. Mi muovo come l’Antiforma, in maniera empatica seguendo completamente il mio istinto che interagisce con il mondo, come io guardo con gli occhi dipingo con le mani.
F.F.: Come ben sottolinea la curatrice Maria Letizia Paiato nel testo critico, la tua pittura può definirsi anche scultura. Nelle tue installazioni ti servi di numerosi materiali, come legno, cemento, vetro, ceramica, granito. Che rapporto hai con la materia? E quanto la pittura ti porta, e ti conduce (consciamente o inconsciamente) alla dimensione materica?
M.M.: La materia è la linfa che dà corpo al tutto, e nell’arte la sfrutto come supporto per dar vita alle mie forme. Il rapporto che ho con essa è lo stesso del bambino in fasce, che con gli occhi vergini osserva il mondo. Grazie al tatto e alla vista rielaboro il funzionamento d’origine dei materiali e li tramuto in tele per le mie mani che a istinto agiscono dando spazio a l’Antiforma. Come dice Maria Letizia Paiato, la mia pittura è divenuta scultura elaborando una serie di installazioni pittoriche consistenti e inclini al mutamento. Ciò che ho fatto non è stato altro che guardare alla pittura come a un “collante” che lega e unisce le crepe tra le forme – creando così un insieme di elementi che si attraggono tra di loro grazie a un magnetismo pittorico. Caratteristica essenziale non solo per la pittura ma anche per il pittore stesso, che diventa “Bobina” per il fruitore che osserva il quadro; o nel mio caso un’installazione pittorica. Sarò esagerato ma credo che tutto in fondo sia “pittura” non tanto per supremazia ma per “omogeneità”. Osservando una scultura, insieme a essa vediamo uno spazio che i nostri occhi inquadrano e definiscono, così si crea una linea di orizzonte, un soggetto protagonista e i fruitori diventano comparse in un agglomerato di colori e forme dipinte. Io sono per natura una persona incosciente, e così sono anche quando dipingo. Rispetto ad altri pittori miei cari amici e coetanei io sono molto più “maleducato”. Non sono per niente paziente e il più delle volte tendo a voler finire un’opera il prima possibile. Ahimè, sono insaziabile e voglio veder subito ciò che mi è balenato in testa in un corpo fisico a discapito di quest’ultimo. Ma mi va bene così in fondo, perché mi piace poter dare voce al mio istinto senza nessun freno. Solo in rari casi mi dedico per diverso tempo a un’opera, ad esempio com’è stato per il lavoro su tela in garze mediche idrofile che ho esposto a Nero — La Factory in “Status”. In questo caso sono stato obbligato ad aspettare perché ogni metro quadrato aveva bisogno dei suoi tempi per l’asciugatura e la tensione del supporto, poi ovviamente una volta asciugato per bene il tutto, tempo due giorni, e avevo finito.
F.F.: “STATUS”, titolo emblematico già di per sé, indica nella sua moltitudine di possibilità uno stato complesso e articolato sia del fare artistico e sia dell’essere artista. Cosa significa per te essere artista oggi?
M.M.: Lo “Status” di per sé significa “star fermo” una tipica imposizione di un movimento nullo che a livello politico e gerarchico denota una posizione sociale di un individuo. Direi calzante per ciò che abbiamo vissuto recentemente, ma non predominante per la mostra che abbiamo messo in piedi. A livello teorico il nostro scopo era andare contro una condizione generalizzante, avviata già da tempo e in più contesti, non solo artistici. Come società crediamo di esser devoti al “Motus”, che banalmente significa “movimento”, in realtà non credo sia così: tutti abbiamo una visione delle cose, e grazie a essa riusciamo ad avere pareri soggettivi di come va il mondo. Dal mio punto di vista l’azione che dà vita al “Motus” è di per sé assopita. Siamo un popolo in continuo movimento che attende però un cambiamento. Quello scatto, la scintilla che dà via al tutto è assente e noi come uomini ci dedichiamo solamente al momento presente. Viviamo per attese incomprese senza tener conto delle cause, e a malincuore osserviamo distanti i problemi che ci si palesano davanti. Secondo me è impossibile che dinnanzi a un problema si debba “star fermi”, anzi bisogna fare qualcosa e qui entra in gioco l’artista. Nel mio caso, ho voluto dar rilievo a un aspetto vitale per la nostra vita e cioè l’“azione” che dà moto alla creazione. L’idea del titolo “STATUS” è stata scelta appositamente per andar contro a questa dottrina mentale statica. In tutte le opere d’arte è vivida un’azione che diviene immortale nel tempo. I miei lavori esposti a Nero La Factory sono figli di una costrizione, quindi in un certo senso ringrazio il lockdown perché mi ha costretto a creare un moto nuovo. Il “Limite” non è sinonimo di “Immobile” e il tempo che abbiamo permette al nostro corpo di abituarci a un determinato spazio, pertanto siamo per natura devoti al movimento a prescindere dallo spazio in cui ci troviamo. È la nostra mente che ci fa dei brutti scherzi e inconsciamente ci blocca. La “volontà” è la vera forza che dà inizio all’azione, un po’ come la materia che ci permette di essere fisici. Esser artisti oggi significa armarsi di tanta pazienza, perché in fondo sappiamo di non esser dei super eroi, viviamo anche noi con tutti i nostri problemi. In questo momento storico è davvero difficile tenere duro. In cuor mio so che non è per niente semplice vivere di arte, ma è altrettanto facile stare bene vivendo con l’arte. Infine confido molto nella forza di resilienza dell’artista. Guardando all’uomo in generale sono convinto che non ci sia forza più grande del movimento che scaturisce la “volontà”.
F.F.: Come ti prefiguri lo scenario artistico post-pandemia? Hai già avvertito dei cambiamenti? Cosa sarà necessario fare per preservare l’arte in uno stato già di precarietà?
Ovviamente lo scenario non è dei più positivi, non possiamo neanche dire con certezza se verranno o meno date altre restrizioni per via della pandemia. La digitalizzazione dell’arte è sempre più prossima. Il contatto con l’arte sta divenendo sempre più freddo e distante. Le identità artistiche mondiali stanno oscillando, nell’attesa che tutto si assesti. Ahimè, credo ci voglia diverso tempo prima che tutto torni alla normalità, se mai ci si ritornerà. La situazione che stiamo vivendo sta modificando di netto ogni dettame classico. Le fiere, una volta colonna portanti del sistema, ora sono in balia di un “forse”, creando così un effetto a catena tale da raggiungere la quotidianità del privato che un tempo viveva facendo arte. Sono situazioni davvero delicate, che non si possono non notare. I cambiamenti nell’arte ci sono sempre, di giorno in giorno qualcosa cambia. Ma mai come in questo caso abbiamo assistito a uno scossone così drastico. Questa situazione ha rimasterizzato i sistemi mondiali in soli tre mesi. Però devo ammettere con piacere che ho avvertito anche dei cambiamenti positivi. Gli artisti dinnanzi a problemi di questo livello hanno iniziato a fare gioco forza per un bene collettivo più ampio. Essendo io un artista devoto alla convivialità non posso non spronare alla rettificazione di un sistema di supporto per quelle realtà o individui che hanno bisogno di sostegno. Non solo a livello economico ma anche morale, non si va da nessuna parte se si ha il morale a terra. Sulla mia pelle ho riscontrato il conforto e l’aiuto che mi è stato dato da amici, artisti e conoscenti a me molto cari. In definitiva, io credo sia necessario preservare il nostro umore, perché in fondo è il nostro stato emotivo che genera ciò che facciamo. Al di là dei successi e dei compromessi ciò che vogliamo è la “serenità”, e per ottenerla e far sì che diventi nostra abbiamo bisogno di noi stessi. Questo è un aspetto che ho imparato conoscendo meglio le persone che mi circondano. Lavorando con l’arte sono arrivato a conoscere persone che non mi sarei mai immaginato di incontrare; artisti e curatori a me lontani sono diventati con il tempo conoscenti, amici e in seguito fratelli. È imparagonabile l’energia che può scaturire in una tavolata imbandita accompagnata da menti pensanti e attive verso un unico scopo collettivo. È solo aiutandoci a vicenda l’un con l’altro che l’arte ritornerà ad avere il suo vigore. È il processo che dà vita all’arte non il suo risultato.
F.F.: Se chiudi gli occhi che Antiforma vedi?
M.M.: Bella domanda…so di sembrare matto se parlo di lei in terza persona, ma se chiudo gli occhi vedo un’amica che non mi lascia mai solo. Vedo qualcuno che sa come sono. Vedo il silenzio nelle mie orecchie e il nulla nei miei occhi. Vedo un’impassibile paura per l’abbandono. Vedo un lieve tremore negli spazi che mi circondano. Vedo una sana ossessione per la ripetizione. Vedo un fagocitante bisogno di conferme. Vedo l’esistenza nelle mie mani. Vedo un confine da tempo superato. Vedo l’empatia che mi circonda. Vedo il ricordo di un giorno passato. Vedo la sofferenza dell’astinenza. Vedo la gioia dell’abbondanza. Vedo un blu profondo che mi rincuora. Vedo il suono dei secondi che mi tormenta. Vedo la linfa della premura. Vedo la bontà di un segno. Vedo un problema senza cura. La vedo come un insieme di malumori e soddisfazioni che accompagnano la mia vita di pari passo a suon di battito.
Info:
Matteo Messori, Portrait, Status, Nero La Factory, Pescara, 2020, ph. Alice Vacondio
Matteo Messori, Portrait, Status, Nero La Factory, Pescara, 2020, ph. Alice Vacondio
Matteo Messori, Formastante (Status #3), acrilico, stucco, gesso su granito, 200 cm x 70 cm x 35 cm, 2020, ph. Alice Vacondio
Matteo Messori, Formastante (Status #2), acrilico su matonelle, cemento e poliuretano, 120 cm x 60 cm, 2020, dettaglio, ph. Alice Vacondio
Matteo Messori, Portrait, Status, installation view at Nero La Factory, Pescara, 2020, ph. Alice Vacondio
Matteo Messori, Antiforma (Status), acrilico, vernice e lacca su legno, 150 cm x 60 cm x 20 cm 2020, ph. Alice Vacondio
Matteo Messori, Antiforma (Status #12), vernice su telo da pioggia, 180 cm x 270 cm, 2020, dettaglio, ph. Alice Vacondio
(1990) Laureata al DAMS di Bologna in Arti Visive con una tesi sul rapporto e i paradossi che intercorrono tra fotografia e moda, da Cecil Beaton a Cindy Sherman, si specializza all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel biennio in didattica dell’arte, comunicazione e mediazione culturale del patrimonio artistico con una tesi sul percorso storico-critico di Francesca Alinovi, una critica postmoderna. Dal 2012 inizia a collaborare con spazi espositivi svolgendo varie attività: dall’allestimento delle mostre, alla redazione di testi critici o comunicati stampa, a laboratori didattici per bambini, e social media manager. Collabora dal 2011 con varie testate: Vogue online, The Artship, Frattura Scomposta, Wall Street International Magazine, Forme Uniche Magazine.
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