“IN QUESTO LUOGO IL 28 MAGGIO 1974 NON È SUCCESSO NIENTE”. La scritta, in pennarello e a caratteri cubitali, si vede da lontano ed è ripetuta due volte: prima ritratta da quella che sembra un’enorme polaroid dalla tinta rossastra e i bordi sciolti, e poco dopo stampata su un foglio di carta da disegno, stavolta con toni freddi, sul quale la stessa immagine della polaroid è stata trasferita. Non ci sono didascalie, ma delle note a mano sul margine dei lavori rivelano cosa stiamo guardando (polaroid 50×60 matrice, polaroid 50×60 lastra in transfer), oltre a classificare e firmare le opere (ready made nov.2023 studio n.45 by Maurizio Galimberti). Rileggiamo: “IN QUESTO LUOGO IL 28 MAGGIO 1974 NON È SUCCESSO NIENTE”. La perentoria affermazione è scritta su un foglietto, sovrapposto a un manifesto che richiama i “Cittadini Bresciani” a partecipare a una manifestazione antifascista “martedì 28 maggio ore 10 in Piazza Loggia”. In quel luogo, quel giorno, è successa una delle tragedie peggiori del periodo della strategia del terrore, quando un ordigno è detonato nel mezzo di una folla di manifestanti, uccidendone 8 e ferendone 102.
In occasione del VII Brescia Photo Festival (che quest’anno, non a caso, si intitola Testimoni) e del 50esimo anniversario della strage, il comune di Brescia e Fondazione Brescia Musei hanno incaricato Maurizio Galimberti (Como, 1956) di commemorare la tragedia attraverso la fotografia con una mostra personale al Museo di Santa Giulia. Scelta particolare, non solo per l’uso atipico che l’artista fa del medium – la sua pratica consiste nel realizzare collage caleidoscopici di dozzine di polaroid dallo stesso soggetto – ma soprattutto perché Galimberti è noto a livello internazionale per i suoi inconfondibili ritratti di star di Hollywood e di luoghi iconici. È un artista alla moda, posizionato più vicino a David La Chapelle che a Christian Boltanski, per cui la decisione di incaricarlo di affrontare un tema come un attentato terroristico può generare perplessità. Dalla prima delle due sale è immediatamente evidente che Galimberti non ha deviato dalla sua cifra stilistica consolidata. Una serie di collage di polaroid si riferiscono a materiale d’archivio riguardante l’evento: fotografie documentaristiche, pagine di giornale, carte d’identità, disegni di bambini. L’artista pare applicare quasi meccanicamente il suo modo di lavorare, come se non si fosse sforzato di reagire al tema assegnato. Ma proprio in tale rigore sta il valore della sua operazione artistica, che permette alla mostra di essere tanto efficace quanto rispettosa.
Galimberti non fa altro che conferire lo status di opera d’arte – nel modo che meglio gli riesce – a ciò che l’evento ha materializzato in diverse forme, evidenziandone l’esistenza materiale e fragile e al contempo consegnandola all’immortalità che solo l’arte è in grado di attribuire. L’unica deviazione dalla sua formula sono le grandi polaroid e i loro transfer su carta, che occupano la seconda parte della mostra e la riaffermano tematicamente manifestando ancora di più la natura caduca e materiale della memoria storica e l’impossibilità di scrivere una narrazione risolutiva su di essa. In questi formati, l’intervento estetico si fa ancora più sottile, quasi nullo. Compaiono nuovi materiali di partenza, come fototessere, manifesti e graffiti, ai quali si aggiungono alcune delle immagini della prima sala, che si ripetono senza una sequenza sensata, come in una sinfonia in decomposizione. Persino i collage di polaroid vengono duplicati a loro volta, in un loop di riproduzioni e alterazioni che livella qualsiasi testimonianza in modo democratico ma ultimamente distruttivo, mimando il processo che il tempo compie sulla memoria collettiva dei testimoni dell’evento e dei loro discendenti.
Galimberti sceglie di fare un passo indietro per quanto riguarda l’interpretazione artistica soggettiva e in maniera sapiente si limita a “musealizzare quelle fotografie, senza minimamente alterarne la sostanza”, come afferma Renato Corsini, fotografo curatore della mostra e autore di alcune delle immagini della strage. Certo, c’è creatività e soggettività nella scelta dei materiali riprodotti e nella loro trasformazione, ma la voce dell’artista non copre mai quella delle tracce stesse: volti, folle, slogan fluttuano nel vuoto – grazie anche all’appropriata scelta di omettere didascalie esplicative – frammentandosi e sciogliendosi davanti ai nostri occhi. In questo contesto anche il minimo segno, come una scritta a pennarello su un foglietto applicato a un manifesto, assume un’aura di incertezza e atemporalità.
È insolito assistere a un’operazione artistica così austera – essenzialmente affine a lavori svolti dai grandi dell’arte internazionale sui maggiori drammi della storia dell’uomo – relativa a un evento così vicino alla propria esperienza personale. Pur essendo di Brescia, la mia età e il mio approccio all’arte mi permettono di esperire la mostra in modo distaccato, ma è chiaro che non tutti hanno questo privilegio. Mio padre, diciassettenne, quel giorno era in centro città e ricorda bene il botto. Mia madre, con cui ho visitato l’esposizione la prima volta, non ne ebbe esperienza diretta, ma il suo turbamento durante la visita era evidente. Suo padre era un manifestante, gli sembra “a sei o sette metri” dall’ordigno quando è detonato. È molto probabile che sia suo uno dei volti nella folla fotografata immediatamente dopo lo scoppio e moltiplicata dall’artista.
Forse è questo pensiero che la spingeva a procedere con passo sostenuto attraverso le sale, senza riuscire a soffermarsi su nessuna opera. Mi ha poi spiegato che semplicemente non riusciva a vedere le opere ma solo la tragedia; non giudicava negativamente l’operazione, anzi appoggiava del tutto la volontà di ricordare attraverso qualsiasi mezzo, ma neanche riusciva ad apprezzarla come mostra d’arte. Si tratta di un risvolto inevitabile di ogni operazione artistica riguardante temi del genere, anche se assistervi in prima persona non può non generare una nuova consapevolezza. Resta comunque indubbio che l’arte è forse il modo più adeguato per ricordare, poiché – se responsabile e rispettosa – è in grado di situarsi nella zona grigia tra l’oggettività della cronaca e la soggettività della narrazione. E Galimberti ha dimostrato consapevolezza del suo privilegiato ruolo di fotografo-artista, mettendosi al servizio della memoria e diventando “testimone di testimonianze”.
Luca Avigo
Info:
Maurizio Galimberti. Brescia, Piazza Loggia 1974
A cura di Renato Corsini
08/03/2024 – 25/08/2024
Museo di Santa Giulia
Via dei Musei, 81 b, 25121 Brescia BS
www.bresciamusei.com
is a contemporary art magazine since 1980
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