Il contesto nel quale si è formata la personalità e poi la ricerca artistica di Mel Bochner appartiene agli anni Sessanta e Settanta. Erano anni di grandi rivolgimenti sociali, di marce a favore della pace, di proteste per la rivendicazione dei diritti delle minoranze e, diciamolo pure, era un momento storico basato anche sulla grande illusione per un futuro di gioia e felicità. Fatto non secondario, in ambito artistico, negli Stati Uniti si stava assistendo a un giro di boa attorno al consolidarsi della Pop Art in sistema di potere e quando questo avviene sappiamo sempre che altri fermenti stanno per diventare operativi.
Ecco, Mel Bochner appartiene a quella generazione di artisti che hanno incarnato gli stendardi del minimalismo e del concettuale, cercando di rompere con gli schemi tradizionali della pittura. Suoi compagni di strada sono stati artisti come Eva Hesse, Donald Judd, Robert Smithson e Bruce Nauman. In particolare, Mel Bochner ha concentrato il suo lavoro sull’analisi linguistica, sulla schematicità delle parole, sulle frasi fatte, sulla traduzione pittorica di sillabazioni e parole simbolo, tanto che i successivi lavori sul testo di Jenny Holzer e Barbara Kruger vantano nei suoi confronti un debito non riconosciuto, ma innegabile. La sua introduzione pionieristica all’uso del linguaggio in ambito visivo ha portato lo storico dell’arte Benjamin H. D. Buchloh a descrivere i suoi Working Drawings del 1966 come la prima testimonianza concettuale. L’installazione a cui Buchloch si riferisce è quella che l’autore espose alla School of Visual Arts di New York. Il titolo completo della mostra era “Working Drawings and Visible Things on Paper Not Necessarily Meant to be Viewed as Art” e la sua stessa lunghezza lo inserisce di diritto all’interno di quella filosofia dell’arte dove il pensare valeva più del produrre, la stranezza della proposta valeva più della sua configurazione, l’allestimento valeva più del singolo segno grafico.
La mostra era composta da fotocopie di disegni progettuali (ma non solo) che egli aveva chiesto ai suoi amici artisti (Donald Judd, Carl Andre, Dan Flavin, Sol LeWitt, Eva Hesse, Dan Graham, Jo Baer, Robert Moskowitz, Robert Smithson, Al Jensen, giusto per ricordarne qualcuno) e che furono esposti in quattro raccoglitori dalla copertina nera disposti su dei parallelepipedi bianchi. Una mostra secca, semplice, povera e tutta da sfogliare. Tra le varie fotocopie venne esposta anche una fattura di Donald Judd che per la cronaca era di 3.051,16 dollari. In senso stretto Working Drawings non era riconoscibile come un lavoro artistico e forse non voleva esserlo o, perlomeno, non pretendeva di collocarsi all’interno di una sequenza tradizionale di derivazione rinascimentale. In realtà spostava l’asse dell’orizzonte, guardando al processo situato nello sviluppo delle idee e alla loro collocazione nello spazio.
L’ombra di Duchamp è ovviamente presente, come un padre nobile di tutta l’arte di quegli anni. In effetti, nell’arte concettuale, Sol LeWitt spiegherà che le idee o i concetti sono l’aspetto più importante del lavoro (“Paragraphs on Conceptual Art”). LeWitt affermerà inoltre che nell’arte concettuale, tutta la pianificazione e le decisioni vengono prese in anticipo e l’esecuzione è solo un aspetto secondario. Ma i Working Drawings pur opponendosi ai processi materici dell’arte tradizionale, non erano del tutto pianificati o decisi in anticipo. Pertanto, i Working Drawings presentano anche degli addentellati con il modello “anti-form” che sarà teorizzato da Robert Morris, là dove si sostiene che potesse esistere una disconnessione tra concezione e realizzazione; diciamo pure che un lavoro minimale non era certo “irrazionale” ma poteva essere “ragionevole” e “ben costruito”. Diciamo pure solido, come quei primi quattro parallelepipedi di Bochner che in effetti hanno segnato la storia di quel decennio.
Bochner è nato a Pittsburgh nel 1940, ma comprese ben presto che il centro dell’arte in America era New York e lì si trasferisce, nel 1964, e lì tuttora risiede. Il suo lavoro, pur sempre incentrato sull’analisi linguistica, subisce negli anni un progressivo sviluppo: in particolare il duro bianco e nero delle sue prime opere lentamente sfuma per far entrare di preponderanza il colore, come carica sensuale e coinvolgente. In realtà questo è un processo che ha coinvolto un po’ tutti gli artisti di quegli anni: la durezza seminale e ideologica degli anni Settanta nel decennio successivo si sfoglia e si appiana in un tripudio di canti cromatici. Basti pensare, come termine di paragone, alle prime foto delle “Singing Sculpture” di Gilbert & George e alle loro successive epifanie: un abisso.
A comprova del suo ruolo all’interno di quei sommovimenti radicali, Bochner vanta una sterminata serie di esposizioni in gallerie private ed è presente nelle collezioni permanenti di MET, MoMA e Whitney Museum di New York, Tate Modern di Londra, National Gallery di Washington, MOCA di Los Angeles, Centro de Arte Reina Sofia di Madrid. In Italia fu presentato per la prima volta nel 1970, a Torino dalla Galleria Sperone e a Milano dalla Galleria Toselli. Ora, a Torino, da Metroquadro, Bochner ritorna per la sua quinta personale in questa galleria e per questa occasione verranno proposti i suoi ultimi lavori su carta: monotipi con collage assieme a incisioni. Mel Bochner ha iniziato a lavorare sui monotipi a partire dal 1994, un po’ per il recupero di una tecnica un po’ passata di moda e un po’ per la sorpresa che il monotipo riserva nello sbiadire dei contorni. Il lavoro sulla lettera non muta e rivela una certa assonanza con la scrittura componentistica di Alighiero e Boetti. I confini sono quelli della pagina e della riga e questo è il vincolo di ogni sua frase, come lo sono le caselle quadrate nelle parole di Boetti. Lo spazio diviene così il vincolo del significato e del messaggio che è possibile trasmettere.
Una volta risolto questo problema, inizia la riorganizzazione basata sugli accostamenti cromatici e sulla percezione delle singole parole. Ma l’autore non sempre vuole dominare l’intero processo creativo: talvolta concede ai suoi collaboratori la possibilità di alcune varianti, così come Mark Kostabi si fa proporre i titoli dei suoi quadri dalle persone che incontra o frequenta. In questa maniera un’arte che vuole essere radicalmente concettuale si apre all’incertezza del risultato, in modo che caso e destino entrano nella fase finale dell’opera. Peraltro questa iniziativa di Metroquadro cadrà nel progetto Exhibi.to OPEN GALLERY WEEKEND, la kermesse torinese che si svolgerà nelle giornate del 21, del 22 e del 23 di settembre, un po’ sulla falsariga dei “vernissage collettivi” che vengono organizzati pure a Berlino e a Londra.
Fabio Fabris
Info:
Mel Bochner
14/09/2023 – 11 novembre 2023
Opening: giov. 14 sett. ore 18.00 – 23.00
Metroquadro
c.so San Maurizio 73 F, 10124 Torino
info@metroquadroarte.com
www.metroquadroarte.com
is a contemporary art magazine since 1980
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