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Michael Armitage alla Kunsthalle Basel

Michael Armitage alla Kunsthalle Basel

“Il laboratorio del futuro” è il tema prefissato per la prossima edizione della 18. Mostra Internazionale di Architettura / Biennale di Venezia e la mostra centrale sarà firmata da Lesley Lokko, scrittrice e architetto scozzese con cittadinanza ghanese. Il punto nodale di questo progetto s’incentra sul continente africano, proprio perché viene visto come una ipotesi concreta di laboratorio del futuro. I motivi da cui parte questo ragionamento possono essere così sintetizzati: l’età media della sua popolazione è pari alla metà di quella europea e degli Stati Uniti; l’Africa ha il più alto tasso di urbanizzazione al mondo (quasi del 4%); è il continente con il tasso più basso di vaccinazioni (pari al 15%), ma con il minor numero di decessi; la diaspora e la tratta transatlantica degli schiavi è il terreno su cui, nel mondo, oggi, si fondano le lotte per i diritti civili.

Questa premessa ci permette di parlare della mostra concepita da Michael Armitage per la Kunsthalle Basel e in qualche misura anche della grande attenzione che il mondo occidentale sta dimostrando nei confronti della diversità e delle disuguaglianze, forse per lavarsi la coscienza da precedenti soprusi colonialistici e da istanze razziste o di supremazia culturale che hanno portato a genocidi e a cancellazioni etniche di cui, in verità, non si vede ancora la fine. Di recente, la più sciocca di queste visioni è stata la pretesa di pensare che la democrazia (come sistema di convivenza civile) potesse essere esportata o che potesse essere accolta a braccia aperte in sistemi sociali radicati nella tribalità e nella tradizione millenaria di sistemi patriarcali e maschilisti.

Michael Armitage (nato nel 1984 a Nairobi, vive tra Londra e Nairobi) ci parla attraverso una pittura “figurativa” i cui caratteri formali sono la stravaganza, le atmosfere molteplici, le superfici stratificate, gli intrecci tra eventi passati e attuali, tratti dalla memoria e dalla mitologia, nonché dalla cultura pop e da riferimenti storico-artistici. Questo porta a riflessioni ossessionanti e provocatorie sulla politica, la storia, la disobbedienza civile e l’umanità. Ma il laccio lanciato alla storia non arriva a Fidia o Policleto, non parla di Pericle o di Cesare, bensì della leggendaria decima figlia del padre fondatore del popolo Gĩkũyũ dell’Africa orientale. L’opera Warigia è datata 2022, perciò si tratta di una raffigurazione del tutto fantasiosa e che si radica in un processo di immedesimazione e di riscatto culturale. Opera di grade efficacia, senza alcun dubbio, ma che ovviamente ricorda altre pitture: è la protagonista raffigurata a renderla diversa. Per esempio i Dormice (un trio di pittori oggi del tutto dimenticato) non molti anni fa parlavano di un mondo edulcorato e alla moda, mentre qui si parla di un popolo che ha subito gli schiaffi della storia. Insomma, qui c’è un aspetto non secondario di critica o di accusa non tanto sottintesa.

Anche in un’altra opera (Head of Koitatel, 2021) la denuncia è a fior di pelle: una testa mozzata giace su un prato. Lo spunto è preso dalla decapitazione, avvenuta nel 1905, di Koitalel Arap Samoei, leader politico e spirituale del popolo Nandi dell’Africa orientale. L’uccisione brutale fu causata dalle forze coloniale inglesi dato che questo leader aveva contrastato l’espansione ferroviaria. Come si vede una cancel culture all’incontrario, nel senso che quello di cui non si era parlato in passato (anche perché al momento del trionfo la storia la fanno i vincitori) viene affermato oggi, con orgoglio e con senso di riappropriazione. Il modo di comporre, sebbene basato su appunti presi persino con la macchina fotografica e solo dopo tradotti in pittura, all’interno dello studio, si basa sul metodo di Édouard Manet, che componeva le sue storie basandosi sui modelli, ma traviando i dettagli o il contesto, il tutto al fine di una narrazione efficace e convincente.

Questo per quanto concerne il modo di comporre, ma aspetto non secondario è la superficie su cui l’autore mette insieme le sue storie e che ha un esplicito riferimento alla sua eredità africana. La superficie della tela di canapa è abbandonata per il Lubugo bark cloth, un panno che viene realizzato dal popolo Baganda dell’Uganda del sud. Proveniente da un albero di fico, questo materiale, per poter diventare panno, subisce un processo laborioso: sotto la pelle esterna ruvida dell’albero, uno strato interno di corteccia viene staccato, bruciato con foglie di banana, imbevuto, ammorbidito con colpi di mazza, essiccato e cucito insieme, in maniera irregolare e rivelando persino rotture e buche. La scelta di questo materiale è, concettualmente, fondamentale: utilizzato nei contesti rituali ugandesi, Lubugo, che si traduce come tessuto funebre, assicura un’evocazione della morte e, insieme a essa, dell’amore e della perdita, che si inarca sotto ogni altra cosa. Infine, nonostante lo straordinario potere di rappresentazione di queste opere, a causa di questo processo artigianale, sono i buchi a prevalere sulla massa dipinta: ciascuno di questi fori è in qualche modo una ferita, ma può essere letto come un’apertura, un orifizio, un portale. Ce n’è una galassia, circondata da giunture cucite in modo evidente e sollevate come cicatrici su un corpo dipinto. Questo, insieme al raggrinzimento dei dipinti, tanto più evocativo di pelle danneggiata e frettolosamente riparata, impedisce qualsiasi senso di serenità o agio da parte di chi guarda. I buchi e gli strappi complicano l’immagine, a volte interrompendola; in altri ne sono l’aspetto determinante. Queste lacune sono tanto visive quanto viscerali, palpitanti attraverso e contro l’immagine dipinta. Nelle superfici tremolanti, l’artista raddoppia l’ansia insita nelle sue narrazioni.

Lo si avverte, in modo spettacolare, in questo corpus di opere, dipinte negli ultimi tre anni per questa grande mostra alla Kunsthalle di Basilea, una bella mostra firmata da Elena Filipovic e sostenuta dalla galleria White Cube. A seguire, dal 16 settembre, Kunsthalle Basel ospiterà la mostra di Daniel Turner.

Fabio Fabris

Info:

Michael Armitage, You, Who Are Still Alive
20/05 – 4/09/2022
Kunsthalle Basel
Steinenberg 7
kunsthallebasel.ch

Michael Armitage, 2022. Photo: Philipp Hänger / Kunsthalle BaselMichael Armitage, 2022. Photo: Philipp Hänger / Kunsthalle Basel

Michael Armitage, You, Who Are Still Alive, installation view, Kunsthalle Basel, 2022; view (f. l. t. r.) on, Personal Thoughts (Asshole), 2021; The Perfect Nine, 2022; Warigia, 2022. Photo: Philipp Hänger / Kunsthalle Basel

Michael Armitage, You, Who Are Still Alive, installation view, Kunsthalle Basel, 2022; view (f. l. t. r.) on, Three Boys at Dawn, 2022, and, Holding Cell, 2021. Photo: Philipp Hänger / Kunsthalle Basel

Michael Armitage, You, Who Are Still Alive, installation view, Kunsthalle Basel, 2022; view (f. l. t. r.) on, Dandora (Xala, Musicians), 2022, and, Amongst the Living, 2022. Photo: Philipp Hänger / Kunsthalle Basel

Michael Armitage, You, Who Are Still Alive, installation view, Kunsthalle Basel, 2022; view on, Curfew (Likoni March 27, 2020), 2022. Photo: Philipp Hänger / Kunsthalle Basel


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