Un corpo ripensato, interpretato dalla memoria ed esposto allo sguardo come vestigio di un tempo sconosciuto. Manifestazione formale di una quasi assenza eppure ancora percepibile, ontologicamente sospeso, è il corpo presentato dall’artista Placido Merino nella sua personale “Morgue” che si inaugura a Città del Messico presso la Galerìa Malaga il prossimo 21 febbraio.
La serie è il risultato di una investigazione artistica in due fasi condotta su alcuni corpi senza identità conservati nell’Instituto National de Ciencas Forenses della capitale messicana. Osservazione e memoria, e in seguito, interpretazione e riflessione personale, sono i poli principali di questa profonda ricerca creativa. “Las aproximaciones” iniziali sono accompagnate da “Las interpretaciones”, ovvero, ritratti familiari, reminiscenze personali sorte dallo scavare nella materia prediletta a ribadire che oltre lo sguardo c’è il vigile percorso mnemonico del soggetto.
Una fisicità peculiarmente espressa da Placido Merino, un artista che padroneggia la tecnica senza codificarla in un processo oziosamente standardizzato. Semmai, la tecnica è tramite perché la narrazione emozionale possa aprirsi nello spazio conquistato faticosamente da ciascun corpo esistente. Pennellate rapide, decise, segni grafici istintivi o al contrario lenti e pacati, mutevoli come mutevole è il soggetto, si appropriano dello spazio della composizione.
Ognuno è un corpo.
Pertanto, ogni approccio metodologico è un incontro specifico e unico con il soggetto. Già nella serie Sombras, Merino ci ricordava che esistono tante tecniche tante come i diversi soggetti. Qui, l’incontro col corpo era incontro con un dna emozionale spesso appartenente al subcosciente, verità soggettiva da acquisire attraverso l’esperienza e l’ascolto di una storia di cui si è veicolo. Se questi corpi erano corpi legati alla vita, in quest’ultima serie si confrontano con un tema altrettanto necessario.
Si appartiene certamente al corpo ma questo corpo – il mio – appartiene alla vita come alla morte. Allora, si giunge alla comprensione individuale della vita proprio attraverso l’assenza di vita. Il corpo è qui approssimazione lirica di un passaggio, è flebile ricordo ematico, traiettoria verso la disgregazione delle (poche) certezze della storia biografica di ognuno. Un corpo che era e che non è. Un corpo che non è ancora qualcosa di differente da se stesso, uno stadio di negazione graduale dell’essere, idealizzazione estetica del pensiero.
Un corpo che attraversando lo spazio pittorico, si lascia attraversare dall’azione del tempo. Perché non si parla della morte con facilità, e quando lo si fa, lo si fa con cautela, pur essendo il concetto della fine connaturato all’esistenza. Per questo, oltre silenzio e oltre il suono, l’arte si fa manifestazione di questo tacito accordo, senza precauzioni estetiche, senza ridondanze narrative. E lo fa attraverso la necessità della memoria che conferisce eleganza a queste composizioni.
Alla disgregazione della fisicità nello spazio che una volta era pura conquista egoica segue la disgregazione lenta dell’archetipo. Il processo creativo è una restituzione ciclica della propria storia alla storia universale. Il corpo è paesaggio disegnato dal tempo e a lui riconsegnato.
Info:
Storico dell’arte, critico e curatrice indipendente. Lavora attivamente in progetti dedicati alle arti visive occupandosi in particolare di scrittura critica e comunicazione. Attualmente vive in Messico dove lavora come docente universitario di Gestione delle Arti Visive. Parallelamente al suo percorso di studi in Storia dell’arte, archeologia e curatela di eventi culturali, si é diplomata in canto jazz presso il Conservatorio di Bari N. Piccinni. Al centro dei suoi interessi si incontrano le manifestazioni artistiche connesse alla relazione tra musica, voce e suoi aspetti rituali e iconografici.
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