La galleria Studio G7 di Ginevra Grigolo apre il 13 ottobre 1973 in una Bologna ricettiva e carica di fermento ma non ancora allineata, soprattutto a livello istituzionale, al più aggiornato dibattito contemporaneo che all’epoca trovava spazio solo nelle grandi capitali e in un limitato numero di riviste cartacee di difficile reperimento anche per gli addetti ai lavori.
Il proposito della sua fondatrice è, fin dagli esordi, quello di portare nella sua città le diverse linee di una ricerca internazionale che inseguiva il nuovo in tutte le sue possibili declinazioni anti-convenzionali e moltiplicava la sfera d’azione della pratica artistica estendendola all’ambiente, al comportamento e all’oggetto venerato come feticcio o stigmatizzato come icona della cultura consumistica nata sulla scia del boom economico degli anni ’50 e ’60. “Non ho mai avuto paura di presentare il nuovo e il diverso, è sempre stato motivo di stimolo e di orgoglio”, racconta la gallerista, instancabile viaggiatrice che nel corso degli anni ha partecipato alle fiere più importanti – Basilea, Colonia, Francoforte, Madrid, Los Angeles, Kassel – in cerca di ispirazione e di artisti da coinvolgere nei suoi progetti bolognesi.
Inizialmente la galleria punta sui multipli e propone al pubblico grandi nomi a prezzi accessibili – come Pistoletto, Paolini, Rauschenberg, Warhol, Lichtenstein – per poi rivolgersi al pezzo unico con l’intento di rappresentare le principali tendenze in atto di quegli anni sviluppando rapporti di amicizia e proficuo scambio intellettuale con ciascuno degli autori invitati. Dal 1976 al 1981 l’attività espositiva viene affiancata da un coraggioso progetto editoriale, il notiziario mensile “G7 Studio” alla cui redazione cominciano a contribuire i più intraprendenti giovani critici dell’epoca, come Renato Barilli, Francesca Alinovi e Roberto Daolio.
Quest’iniziativa è sintomatica del rigore scientifico che contraddistingue le scelte di Ginevra Grigolo, sempre orientate a valorizzare la centralità dell’opera e il suo autonomo linguaggio anche a discapito di interessi commerciali più immediati, come nel caso dei wall drawings temporanei che artisti del calibro di Hidetoshi Nagasawa, Ulrich Erben, Sol LeWitt e David Tremlett stratificarono sulle pareti della galleria. Un’altra pietra miliare della storia di Studio G7 è la collaborazione con Marina Abramovic, che nel 1977 trascorre un mese a Bologna assieme al compagno Ulay e presenta negli spazi della galleria la performance Relazione nel tempo, in cui i due protagonisti rimasero seduti per 17 ore legati l’uno all’altro dall’intreccio dei loro capelli.
A distanza di 44 anni dall’apertura, il MAMbo omaggia il lavoro di Ginevra Grigolo e il contributo della sua galleria al sistema artistico della città con una mostra che documenta le tappe salienti della sua ricerca e mette in risalto il raro connubio di intuito, passione, esigenza e azzardo che hanno guidato i suoi passi nell’esplorazione di un panorama artistico sempre più sterminato e multicentrico. Il percorso espositivo è intenzionalmente non cronologico per evidenziare i principali nuclei tematici con cui la gallerista si è confrontata nel corso della sua lunga carriera e mette a confronto la poetica di artisti provenienti da differenti generazioni e retroterra culturali.
Se l’opera di ciascuno è valorizzata da un allestimento che gioca con le assonanze stilistiche, formali, materiche e linguistiche rintracciabili in lavori apparentemente eterogenei, l’armonia dell’insieme fa emergere il leitmotiv che li accomuna: l’intuito di Ginevra Grigolo per la qualità e la sua appassionata curiosità governata da un gusto impeccabile e lucidamente critico. Si tratta quindi di una mostra fuori da G7 che verifica su scala museale il modus operandi della galleria, un laboratorio di idee dove la ricorrente formula della mostra in coppia ha sempre giocato sull’enfatizzazione della diversità di ricerca che ogni volta riesce a trovare un ineffabile e misterioso punto d’incontro.
My way, a modo mio è anche un catalogo, in cui la tradizionale scheda tecnica che documenta le opere è sostituita da un ricordo, un’ispirazione o un suggerimento interpretativo che, pudicamente, introducono il visitatore nel ricco mondo degli “oggetti intellettuali d’affezione” della gallerista permettendo di indovinare il filo conduttore del suo pensiero sull’arte. Le enigmatiche prospettive di Pistoletto, “un susseguirsi di multipli su lastre specchianti che confondevano lasciando entrare lo spazio nello spazio dell’opera” dialogano ad esempio con i lucidi reperti revivalisti di Anne e Patrick Poirier, di cui la gallerista ammira l’enorme bagaglio culturale, mentre uno spazio a sé stante è dedicato all’opera di Giulio Paolini, “forse la personalità più forte tra i concettuali incontrati, un lavoro affascinante nella sua precisa difficoltà di costruzione”. La scultura è protagonista dell’area centrale della grande sala delle ciminiere del MAMbo, dove strutture, materiali e cifre espressive diverse creano un raffinata atmosfera da giardino segreto: l’acciaio e le putrelle talvolta impreziosite da vetro di Murano di Eduard Habicher stabiliscono un rapporto di complementarità con le candide creazioni di Paolo Icaro, dove il gesso trasfigura oggetti comuni rendendoli morbidi ed evanescenti. I massi sbozzati in terracotta di Antonio Violetta, gravidi di energie trattenute nel segno della terra, dialogano con le aeree strutture di Marco Pellizzola e con gli intimi ecosistemi poveri di Gregorio Botta, mentre le porte magiche di Mirta Carroli interpretano la forza come maestosità antica e resistente.
I pittori esplorano varie sfumature e gradazioni dell’astrazione individuando composizioni geometriche rigorosamente definite da campiture nette, come Eun Mo Chung, Pierpaolo Curti o Walter Cascio, o soffuse aree di irradiazione cromatica segretamente ribelli al confine che le delimita, come Ulrich Erben, Alan Green o Paolo Iacchetti. Anche la fotografia sfugge alle più convenzionali definizioni dell’immagine per diventare scultura nel lavoro di Matthias Biehler, camaleontico assemblaggio iconografico in Adriano Altamira, straniamento e solitudine in Pierluigi Fresia o catalogazione di eventualità combacianti nelle polaroid di Paolo Masi. Il comportamento dell’essere umano, inestricabile agglomerato di fisicità, pulsioni e condizionamenti sociali e culturali è invece indagato dalle trappole concettuali di Daniela Comani imperniate sul doppio e sul gender, dallo sguardo carico di desiderio di James Collins, dalle narrazioni di Anna Valeria Borsari e dalla sperimentazione delle capacità di sopportazione della sofferenza fisica di Marina Abramovic, che chiude idealmente la mostra con una video intervista in cui racconta il suo soggiorno bolognese con parole cariche di affetto e stima per Ginevra che fu una delle sue prime sostenitrici italiane.
My way, a modo mio. Ginevra Grigolo e lo Studio G7, 44 anni tra attività e ricerca.
20 aprile – 28 maggio, 2017
MAMbo, Via Don Minzoni 14 Bologna
Franco Guerzoni, Spia, 1982, tecnica mista su carta, cm 60×90
Anne et Patrick Poirier, Archetipo Perduto, 1990, acciaio, cm 127x123x92
Sol LeWitt, Arcs from four sides on four walls, walldrawing, 1986, Studio G7
Ginevra Grigolo, mostra inaugurale della Galleria Studio G7. Pistoletto, “Una proposta per un cinema povero”, 1973
Marina Abramovic e Ulay, “Relazione nel tempo”, performance alla galleria Studio G7, 7 ottobre 1977
Michelangelo Pistoletto, Gabbietta, 1974, serigrafia su acciaio lucidato a specchio, tiratura 450 esemplari, cm 100×70
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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