Tutta la vita di cui abbiamo bisogno per vivere, tutto quello che noi mangiamo, è esiliato altrove. E tutta la vita che non fa parte dei nostri bisogni è tenuta ancora più lontano, in spazi chiamati foreste, letteralmente l’estremo fuori – una sorta di campo profughi per tutta la vita che non ci riguarda.
Emanuele Coccia, Astrologia del Futuro, 2020
Fin dall’antichità la natura pur mostrando in ripetute occasioni il suo lato più misterioso e feroce e terrifico, ha offerto rifugio e sostentamento all’uomo. Fonte di energia vitale, lo ha nutrito, cresciuto, cullato tra le radure dei suoi antichi boschi, ispirando profezie arcane e rituali campestri. Eppure, all’improvviso Madre Natura, da sempre temuta e ammirata, ha innalzato un grido di dolore muto. Nell’era dell’Antropocene e del consumismo, il legame tra essere umano ed elemento naturale si è a poco a poco logorato a favore di uno stile di vita frenetico e soltanto in apparenza più appagante. Un distacco fisico, ben visibile nelle nostre unità abitative e nelle città[1], ma soprattutto spirituale.
Natural Ellipsis, Anima Mundi e conversione ecologica, la personale di Pietro Lo Casto (Bologna, 1986) a cura di Rita Meschiari negli spazi di Gate 26a e Studio Tape di Modena, affonda le sue radici nel bisogno personale dell’artista di attuare una rivoluzione interiore, un mutamento del proprio spirito, al fine di raggiungere la connessione con il macrocosmo della natura. Questa necessità si è fatta spazio lentamente dentro di lui, quando per la prima volta comprende di non tollerare più lo stile di vita che stava conducendo a Londra. Inizia così il suo viaggio, prima in Sud America, poi in Australia e in Asia, fino a Bangkok, dove attualmente vive. È in quel momento che la fotografia diviene compagna indispensabile e costante strumento di indagine. Tuttavia, la sua conversione, personale e artistica non si sarebbe potuta compiere senza alcuni episodi fondamentali; primo tra tutti la conoscenza con Geir Leklem Ertzgaard, docente di fotografia di origine norvegese, che gli insegna a immortalare l’elemento naturale nella sua magnificenza e forza. Successivamente, durante i giorni trascorsi insieme alla comunità di Santa Elena, nei pressi di Medellin, prende parte a un rituale dove assume l’Ayahuasca, una radice dalle proprietà psicotrope. “Quella terza e ultima notte fuori dalla maloka infuriava una tempesta”, racconta l’artista, “ho visto le venature della terra e il sangue verde degli alberi. Ho sentito quella connessione, c’era qualcosa di incredibilmente soddisfacente nel rendersi conto che siamo profondamente connessi l’uno con l’altro e con la natura, che la felicità non viene dal fare tonnellate di soldi e comprare cose, ma semplicemente dal sostenersi l’un l’altro, dall’amarsi e dall’amare questo mondo. Mi sembrava di sapere già tutte queste cose, ma di averle represse col tempo. La vita mi aveva portato lontano da questo. La fotografia è arrivata, per riportarmi indietro. […] Dopo quel fine settimana ho iniziato un nuovo percorso e molto rapidamente la fotografia è diventata lo strumento per continuare ad esplorare quel luogo dentro di me”.
L’opera To Search the Secret of the Forest, comprendente un video e una serie di trentacinque fotografie, nasce da una presa di coscienza ulteriore. Dopo essersi iscritto alla Pathshala Institute in Nepal per studiare fotografia, Lo Casto si avvicina alla comunità di un villaggio chiamato Tangia Basti, rendendola la protagonista della sua più recente ricerca. Movie, visibile nella prima galleria Gate 26a di via Carteria 26a, è una ripresa fissa della natura che circonda quel luogo. Il tempo sembra sospeso, mentre lentamente dei bufali si avvicinano alla camera. Il vapore del fiume rende le immagini ovattate e oniriche ed è il primo momento in cui la percezione che si ha della visione è quasi spirituale. I soli protagonisti qui sono gli animali e la foresta che li accoglie, i rumori lontani e vicini, il senso di intimità del racconto. Eppure, non si tratta soltanto di pura contemplazione, la natura si palesa in tutta la sua intensità. Intorno al video centrale, quattro televisori mostrano invece alcuni abitanti del villaggio intenti in azioni quotidiane o religiose, come danze e riti sciamanici.
Quelle stesse figure diventano centrali nella serie fotografica esposta all’interno del secondo spazio espositivo, Studio Tape. In questi scatti la relazione mistica tra uomo e natura diviene ancora più centrale. D’altronde Tangia Basti non è un insediamento come gli altri. Ha origine quasi quarant’anni fa, quando il governo nepalese decise di mandare un gruppo di contadini che provenivano dalle zone dell’Himalayas, all’interno del Tarai, estesa zona pianeggiante del Nepal, per un’opera di riforestazione. In seguito a un cambio di governo, queste persone vennero dimenticate e, trovandosi in questa zona piana e fertile, decisero di rimanere per creare un nucleo abitativo. Oggi sull’area incombe la prospettiva di costruzione dell’aeroporto di Nijgadh e se il progetto venisse accettato si tratterebbe del più grande aeroporto del sud-est asiatico, determinando la conseguente deforestazione della zona e il ricollocamento dell’intera comunità di Tangia Basti, i cui abitanti, data l’origine della formazione del villaggio, non godono di alcun diritto di proprietà sulle terre. Tuttavia, il lavoro di Lo Casto non vuole avere una funzione meramente documentaristica o di denuncia. Nonostante le forti tematiche sociali di cui è intrisa l’intera serie, le sue fotografie con le loro tinte fredde e tonalità neutre desiderano raccontare come la vita di coloro che vivono quel territorio si intrecci in modo viscerale all’ambiente limitrofo e come sia possibile ritornare a uno stato primordiale, in cui essere umano e Madre Natura vivono in simbiosi.
Se da una parte “in queste immagini”, spiega la curatrice Rita Meschiari, “è possibile ritrovare quel senso di abbandono e sospensione, di un destino probabilmente infausto ma ancora da definire e di un passato e un presente vissuti da ospiti nella propria terra”, dall’altra “la comunità ha trovato nella natura il perfetto alleato per adempiere ai suoi bisogni. L’acqua del fiume è calda solo nelle prime ore del mattino e solamente d’inverno ed è l’esempio perfetto di come uomo e natura collaborino a Tangia Basti in un equilibrio quasi surreale”.
Il progetto finale è complesso e affascinante, compimento di una esigenza che da individuale si trasforma in collettiva. Nell’ultimo periodo, infatti, Pietro Lo Casto si è anche avvicinato alla corrente Post-Umana, indagando una tipologia di coscienza che possa portare a una soggettività comunitaria e distribuita, sostenuta dal desiderio condiviso di raggiungere una comprensione adeguata delle condizioni che limitano la nostra libertà.[2] La comunità di Tangia Basti si fa allora metafora di una necessità di mutamento di percezione e di una conversione ecologica comune. “La foresta immortalata dall’artista”, conclude la curatrice, “non è più quell’estremo fuori di cui parla Coccia, quel campo profughi per tutta la vita che non ci riguarda [3], ma è esempio di vita pulsante e campanello dall’allarme al tempo stesso”.
Info:
Pietro Lo Casto. Natural Ellipsis, Anima Mundi e conversione ecologica
a cura di Rita Meschiari
17/09/2021 – 17/10/2021
Gate 26a, Via Carteria, 26 a, Modena
Studio Tape, Via Carteria 60, Modena
[1] COCCIA, Emanuele, (2020) Astrologia del Futuro, Flash Art 349 Giu-Ago 2020
[2] BRAIDOTTI, Rosi (2019), Posthuman Knowledge, Polity Books
[3] Op. cit.
Installation view, Natural Ellipsis Anima Mundi e conversione ecologica, Pietro Lo Casto, River Bath, Fire, Shamanic Ceremony, 2020, stampa inkjet. Photo credit Sabattini Davide, courtesy Studio Tape, Modena
Pietro Lo Casto, Boy playing, 2020, stampa inkjet, 40 x 50 cm. Courtesy Pietro Lo Casto
Pietro Lo Casto, Farmer, 2020, stampa inkjet, 165 x 110 cm. Courtesy Pietro Lo Casto
Installation view, Natural Ellipsis Anima Mundi e conversione ecologica, Pietro Lo Casto, Movie, 2020. Photo credit Sabattini Davide, courtesy Gate 26a, Modena
Storica e critica d’arte contemporanea. Laureata in storia dell’arte all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, durante la specialistica lavora per la Fondazione Pistoletto, dove affianca l’artista Nico Angiuli nella produzione e direzione artistica dell’opera The Human Tools, vincitrice del premio Italian Council. Conclude i suoi studi alla IULM con una tesi sperimentale in collaborazione con l’archivio Vincenzo Agnetti. Amante della ricerca, oggi porta avanti il suo progetto all’interno dell’archivio e scrive per diverse riviste di settore.
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