Nella brillante e surreale Centuria numero ventidue[1] scritta da Giorgio Manganelli, si ragiona astrattamente su una capacità unica e propria che il deserto produce tutti i giorni, si tratta di un’azione molto articolata, che è il pensare. Se tale attività può sembrare assurda ai più, in realtà il deserto, nella sua pacata e tranquilla serenità, è un instancabile motore che lavora per ideare progetti secondo una precisa grafica mentale. Se ci si abbandona al vortice di analogie indotte da questa bizzarra visione, non è assurdo immaginare il panorama della città di Roma come un deserto un po’ pensante, proprio per il suo essere immortale e in trasformazione perpetua per sublime aspirazione.
Su questa straordinaria relazione trova fondamento la mostra Nella pittura. Roma capitolo I, a cura di Massimo Mininni e Davide Sarchioni, in programmazione dal 30 giugno al 3 settembre 2023, presso la Galleria Il Frantoio di Capalbio di Maria Concetta Monaci, con le opere di Paolo Assenza, Romina Bassu, Verdiana Bove, Marco Eusepi, Krizia Galfo, Luca Grechi, Luca Grimaldi, Diego Miguel Mirabella e Katia Pugach. E se a onor del vero, il gran lume di Roma risiede nell’essere deserto, in quanto luogo di sterminata e fluida ideazione per la sua superficie morbidamente cangiante, i curatori hanno reinterpretato il panorama della capitale con un’intenzione affatto ovvia: raccontare questa realtà daccapo, seppur rifacendo tutto in maniera diversa. Il principio d’unione degli artisti è riassumibile in una domanda improcrastinabile rivolta a ciascuno di essi, generata da un’osservazione spassionata tanto quanto l’ammirabile intuizione di Manganelli: che cosa mai progetti il deserto e che idea abbia di sé?[2]
Una lucida ed esaustiva risposta è rintracciabile nelle opere per chiunque cerchi di capire la sostanza della pittura stessa, ci si riferisce ai lavori di Luca Grechi e Marco Eusepi, i quali rivelano ciò che gli si avvita interiormente al loro contatto con il creato. Nelle vene di Luca Grechi scorre un caro amore rivolto alla natura, di notevole splendore, i lavori di piccolo formato rivelanti una nuova indipendenza del tratto carnale e mosso da nuove turbe d’aria e riverberi, che si sovrappongono senza sommarsi facendo trasparire una gaiezza cromatica elegante e sopraffina. Così, ancora una volta, Grechi dimostra di desiderare il contatto con l’umana lentezza e il suo dato reale, riportando sulla tela ciò che sa e non quello che vede. Da qui la scelta di dare corpo e concretezza a un petalo, preferendo esaltare l’olfatto assieme al suo incessante fiorire che varia continuamente colore, come i riflessi del cielo che si tramutano senza sosta nelle sue morbide tonalità. Se per l’artista contemplare equivale a cercare nuove visioni oltre la nuda realtà, l’osservare è finalizzato a reperire un’etica di lavoro, per cui la pittura scorre con lentezza tanto quanto le sue interiori vedute, che rimangono nascoste da un dotto approccio riflessivo.
Una forma esaltante di libertà inventiva imperniata sui cromatismi naturali l’affronta anche Marco Eusepi, le cui opere, anch’esse di piccolo formato, colpiscono per essere pregne di sole e sfavillanti di felicità. Le forme impresse sembrano gonfiarsi per poi esplodere in una smisuratezza liberante, dimodoché Eusepi, vincolato da un soffuso classicismo naturalistico, raccoglie l’energia del nettare zuccherino di ogni pistillo, con una pittura basata su un fulgido gesto cromatico e sul suo tocco spregiudicato. E siccome Eusepi riesce a cavare la bellezza estatica da un covo di fiori, di cui rimangono evidenziate le sole chiazze di colore, le opere che ne scaturiscono sono costruite con un verde tipico dell’erba viva, un lilla infuocato di vita e un azzurro del cielo dell’alta montagna.
Se con questi artisti si ha la sensazione di aver sfiorato l’etereo, con Paolo Assenza, invece, si tocca il terreno e i lampi nel riverbero di un tramonto dalle verdi sindromi. Gli scorci turbinosi paiono voler annunciare una tempesta in arrivo e, sebbene non si profili alcunché se non onirici e fantastici aloni, ecco lo spazio di una penisola stretta fra mari, nel contesto del miraggio di luce serale. E se ci lasciamo guidare dalla geografia apparentemente insulare che l’artista riporta, rimane la percezione nitida e vibrante del racconto della sua pittura: un ipnotico paesaggio costruito per sottili e distese velature. Anche con Katia Pugach il movimento viene cristallizzato e ricomposto attraverso un’inesausta tensione geometrica, richiedendo altresì un’attitudine dinamica allo spettatore, laddove l’artista ricama sismogrammi ottici, in modo che le forme, rigorosamente ordinate, evocano mirabili speculazioni prospettiche. Per cui ogni severa pennellata è racchiusa in un gioco di schemi geometrici, dimostrando un nuovo modo di speculare una rassicurante geometria cifrata da proporzioni prive di caos. Diversamente con Verdiana Bove la pittura è una nostalgica e malinconica ossessione, per cui colore ed essenza sono uniti in una trasmutazione visiva senza sosta. In questo modo, partendo da una concezione della vita che affiora per ricordi, Bove modella il suo freddo universo di dissonanze. Tuttavia, si muove secondo determinate coordinate spaziali e temporali, per cui lo spazio è un insieme di punti e il tempo è un’assurda simultaneità di istanti. Così, riducendo la distanza tra contenuto e forma, i fatti sembrano accadere nella rappresentazione per emergere di colpo in una volta sola.
La dislocazione spaziale è l’essenza dei lavori di Krizia Galfo, allestiti in uno spazio difficile da osservare, spiccando, di contro per un’ovvia e brillante scelta di un pittorico sviluppato per frammentati e molteplici punti di vista. Quanto realizzato, anche se privo di un significato sentimentale, accoglie realistiche sfumature di realtà, quali incantesimi visivi, giacché l’artista, calandosi nella soglia pittorica, permette al personaggio di rivelarsi in una recondita confessione dalla plastica aderenza reale. Anche con Romina Bassu è da riconoscere una rara capacità di disvelamento, una contrapposizione ingegnosa e caparbia, tipica dei pittori “estremi” che hanno sempre qualcosa d’autentico da comunicare. Bassu ci suggerisce che bisogna essere ostinati quando si crea, dimodoché si inscenano i più raffinati giochi e accavallamenti visivi. Se la pittura in alcuni punti risulta composta, in altre parti – in particolare nello sbiadito dal fare spurio – v’è la rivelazione dell’immagine che strappa l’aurea a ciò che è apparentemente consueto, sì da invitarci a rileggere l’immagine secondo un nuovo senso.
Analogamente Luca Grimaldi apre l’accesso verso inedite visuali basate sull’aspetto giocoso e di farsa prospettica, privilegiando il valore visivo nell’uso del bianco, intramezzato di pennellate costruttive volte a suggerire una scenografia fittizia. Con questo artista c’è sempre qualcosa di elettrizzante nei soggetti prescelti, accingendosi a cambiarli interamente, in quanto “prodigioso cannibale” che destruttura iconografie e orchestrando, allo stesso tempo, una polifonia di consueti frammenti con luoghi, uomini ed animali. Infine, con Diego Miguel Mirabella la pittura accede a un’arte sacra, quale è la scrittura che manovra con estrema libertà, ponendo così in discussione i più classici pensieri comuni. Abbagliante di luce ed intelligenza il lavoro in mostra ideato nell’anno 2022, apre verso una riuscita e nuova ricerca, mentre le altre opere riportano nella sommità tratti stilografici con il nome dell’artista, ora valorizzati da conturbanti contorni. Mirabella, in altri termini, altro non è che un chimerico plasmatore pittorico di un linguaggio riflessivo e lapidario, carico di inflessioni nel controcampo tra percezione e parola. Con questo progetto espositivo il romano deserto un po’ pensante e fintamente immobile che si è annunciato all’inizio, si rivela esplicitamente un luogo di comune riflessione. Eludendo inutili e riduttive etichette d’appartenenza, sin troppo strumentalizzate, a favor di alcuni da due anni a questa parte, si privilegia il naturale confronto per una nuova veste della pittura, compendio di una prolifica fantasia desertica fatta d’acqua, fiori, dorata e calda sabbia.
Maria Vittoria Pinotti
[1] Giorgio Manganelli, Centuria, Cento piccoli romanzi fiume, Adelphi Edizioni, (1995), 2023, p. 261
[2] Ibidem
Info:
A.A.V.V. Nella pittura. Roma capitolo I
A cura di Massimo Mininni e Davide Sarchioni
30/6/2023 – 3/9/2023
Galleria Il Frantoio, Piazza della Provvidenza, 10, 58011, Capalbio
Sito web: www.associazioneilfrantoio.it
Orari di apertura: da mercoledì a lunedì dalle ore 18.00 alle ore 23.00, chiuso il martedì.
Maria Vittoria Pinotti (1986, San Benedetto del Tronto) è storica dell’arte, autrice e critica indipendente. Attualmente è coordinatrice dell’Archivio fotografico di Claudio Abate e Manager presso lo Studio di Elena Bellantoni. Dal 2016 al 2023 ha rivestito il ruolo di Gallery Manager in una galleria nel centro storico di Roma. Ha lavorato con uffici ministeriali, quali il Segretariato Generale del Ministero della Cultura e l’Archivio Centrale dello Stato. Attualmente collabora con riviste del settore culturale concentrandosi su approfondimenti tematici dedicati all’arte moderna e contemporanea.
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