Nella mostra Nigeria. Mémoires d’Afrique in corso a Verona negli spazi di MAC – MeglioranziArtCollection, una delle fotografie di Maurice Mbikayi si intitola Masks of Heterotopia, riprendendo il nome della sua personale organizzata nel 2018. Il termine “eterotopia”, introdotto dal filosofo strutturalista Michel Foucault nel saggio Des Espaces Autres (1967), descrive luoghi che non appartenendo né al mondo reale né a quello immaginario, rappresentano un’eccezione rispetto agli spazi tradizionali e una sovversione della loro logica. Questo concetto risulta centrale per una mostra che non è solo una raccolta di oggetti tribali, ma un’esplorazione critica del nostro modo di approcciare la storia africana. Quello museale per sua natura è uno spazio eterotopiсo, in quanto custodisce oggetti che, estrapolati dai loro contesti originali, creano un ambiente a sé stante.
Il collezionismo moderno come pratica sociale e il concetto di art sauvage risalgono all’inizio del Settecento, all’epoca dell’Illuminismo francese, quando furono creati musei e collezioni pubbliche cruciali per l’identità nazionale[1]. Un’importante svolta nella storia del collezionismo si ebbe agli inizi del XX secolo, quando cubisti, surrealisti e altri artisti europei, in un periodo di riscoperta antropologica, si avvicinarono a nuove forme di espressione ed estetica, introducendo il concetto di art nègre[2]. E fu Jacques Kerchache a introdurre l’espressione oggi più usata, art premier o art primitif [3]. Le premesse storiche e strutturali del collezionismo e delle pratiche museali rendono complesso distinguere la visione indigena delle culture africane dalla rappresentazione europea di esse, senza rischiare una prospettiva riduttiva o esotizzante. La mostra Nigeria. Mémoires d’Afrique ci invita a esplorare queste “memorie” non come semplici oggetti da collezione, ma come tracce vive di culture lontane, attraverso una selezione di sculture e maschere dell’arte primitiva nigeriana poste in dialogo con opere di arte contemporanea realizzate da artisti africani.
L’artista marocchina Safâa Erruas, ad esempio, utilizza carta bianca traforata, simbolo di purezza e di pace, per nascondere oggetti taglienti come vetro o aghi, esprimendo così il dolore invisibile dei popoli oppressi. Nel collage Territories (2017), centinaia di occhi ci osservano da un territorio senza nome, simbolo universale delle aree di conflitto. Mentre in Breaking News (2017) abbiamo di fronte una selezione di frasi giornalistiche in cui sono infilati sempre i sottilissimi vetri rotti, quasi invisibili da lontano. Queste opere ci costringono a riflettere su quanto la memoria storica sia spesso il frutto di una costruzione.
Il linguaggio visivo del congolese Maurice Mbikayi è caratterizzato dall’utilizzo di e-waste, in particolare componenti di computer, simbolo del sovraccarico della società dei consumi. Attraverso questi materiali, l’artista affronta temi legati allo sviluppo tecnologico forzato e al capitalismo accelerato in stretto collegamento con il colonialismo occidentale. Le sue opere mostrano una forma di kitsch come critica verso la modernità.
Al contrario, le opere di Esther Mahlangu, artista della tribù Ndebele, propongono una logica alternativa: quella del dono. Nella cultura del popolo Ndebele, a cui appartiene Mahlangu, l’arte non è un prodotto di scambio, ma un mezzo per trasmettere sapere e valori collettivi. I motivi tradizionali Ndebele incarnano l’economia del dono[4], dove l’accento è posto non sul profitto o sull’accumulo, ma sulla continuità culturale e la generosità. L’utilizzo di pattern decorativi è tipico di molte culture africane.
Un altro esempio presente nella mostra è un costume tradizionale del popolo Igbo, usato nei rituali Agbogho Mmuo, che celebrano la gioventù e la bellezza femminile. Nella lingua Igbo il concetto analogo al pattern è ukpụrụ̄ che si riferisce sia alla forma o struttura nel senso di design, sia alla struttura in quanto fondamento o essenza. I disegni ụkpụrụ possono comparire nei tessuti tradizionali, nelle ceramiche o nella struttura architettonica delle comunità Igbo, dove i motivi sono strettamente legati alla loro cosmologia. La conseguenza inevitabile della dimensione eterotopica dello spazio museale, come accennato all’inizio, è l’alterazione del significato di un oggetto una volta rimosso dal suo contesto originale. Vari critici della museologia[5] sostengono che, nel processo di museificazione, gli oggetti sacri rischiano di diventare profani e di vedere sovvertito il loro significato. La mostra invita il visitatore a riflettere su questo aspetto: se anche il “dono” possa trasformarsi in merce.
Anastasia Pestinova
[1] Antonio Saura, “Arti selvagge”, Je suis l’autre, ELECTA, 2018.
[2] Patricia Leighton, “The White Peril and l’art nègre: Picasso, Primitivism, and Anti-colonialism”, Art Bulletin. v. 72, no. 4. December 1990. 609–630.
[3] Malika Bauwens, “Que sont précisément les ‘arts premiers’?”, Beaux Arts, 2023 (https://www.beauxarts.com/grand-format/que-sont-precisement-les-arts-premiers/).
[4] Marcel Mauss, “The Gift: Forms and Functions of Exchange in Archaic Societies”, Routledge Classics, 2002.
[5] Per esempio: Jaques Derrida, “Donner la mort”, Paris, Métaillié-Transition, 1992; Giorgio Agamben, “L’uomo senza contenuto”, Quodlibet, 1994.
Info:
AA.VV. “NIGERIA. Mémoires d’Afrique”
Artisti: Safaa Erruas, Maïmouna Guerresi, Maurice Mbikayi, Esther Mahlangu
10/10/2024 – 23/11/2024
MAC – MeglioranziArtCollection
Verona, Corso Sant’Anastasia, 34 Verona
www.meglioranziartcollection.com
is a contemporary art magazine since 1980
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