Fino al 28 maggio, con Of My Abstract Gardening, di Agostino Iacurci, i colori di un affascinante giardino invadono lo spazio della Galleria Ex Elettrofonica. Di seguito, gli esiti della piacevole chiacchierata che l’artista ha gentilmente concesso a Juliet Art Magazine.
Claudia Pansera: Mi piace iniziare le interviste con una domanda che è un po’ un rituale… Un artista italiano, nato a Foggia, che viaggia tantissimo. Chi è Agostino Iacurci?
Agostino Iacurci: Posso aggiungere che ho trentasei anni, ho studiato arti visive all’Accademia di Belle Arti di Roma e ho vissuto in vari luoghi, l’ultimo è Berlino, in cui ho abitato per sei anni. Attualmente mi trovo a New York per una residenza all’ISCP (International Studio & Curatorial Program) di Brooklyn. Sono un artista visivo, lavoro con il disegno, la pittura e la scultura, per poi abbracciare lo spazio attraverso le installazioni. Ho lavorato molto nell’ambito dell’arte pubblica realizzando grandi murales, a questa attività alterno una pratica di studio più tradizionale, sperimentando con vari media e collaborando con altri professionisti, artigiani e maestranze.
Ho letto che la mostra Of My Abstract Gardening, presso la galleria Ex Elettrofonica, è un progetto che deriva dall’idea di hortus conclususe di horti picti, i cicli pittorici parietali tipici della pittura romana. Sembra che tu sia molto affascinato da opere antiche e spesso la tua ispirazione si rifà infatti al passato. Ti va di raccontarci e spiegarci il perché di questa ispirazione per il tuo ciclo espositivo da Ex Elettrofonica?
Vengo da un periodo in cui ho letto diversi libri sui temi della botanica e dell’intelligenza vegetale e, allo stesso tempo, mi sono interessato al tema dell’orto nel senso più esteso del termine, fino a comprendere l’idea di hortus, inteso come paradiso terrestre. Da lì, mi sono poi avvicinato all’idea di horti picti, i giardini dipinti sui muri degli edifici dell’antica Roma. Ho realizzato diversi progetti nei quali sono partito da stilemi del mondo classico, diventati veri e propri archetipi o cliché che appartengono all’immaginario collettivo: in un certo senso cerco di instaurare un rapporto personale con il repertorio antico che, volente o nolente, ha segnato il mio immaginario, tra cocci di anfore ritrovati nelle campagne pugliesi da bambino, gli studi romani e i viaggi internazionali. Visto che parte del mio lavoro è da muralista, ho pensato di confrontarmi con un genere proprio della pittura parietale, quello appunto del giardino dipinto che ha una tradizione ampia e ben documentata. Negli horti picti ricorre la sincronicità delle varie stagioni, nei paesaggi sono accostati fiori e piante che in natura fiorirebbero in periodi diversi: si tratta quasi di compendi del paesaggio naturale nel momento della sua massima fertilità. C’è un’idealizzazione che ho voluto leggere in chiave astratta, mi sono così allontanato dalla rappresentazione delle determinate specie botaniche, favorendo la ricerca di forme personali. Quando ho ricevuto l’invito per presentare un progetto da parte della galleria Ex Elettrofonica, mi è sembrato il luogo perfetto per lavorare a queste idee. Lo spazio è caratterizzato da un grande elemento centrale, una sorta di albero stilizzato, e da pareti curve che la rendono simile all’interno di una navicella spaziale. Ho dunque pensato che lo spazio risuonasse con l’idea di un tema antico che riappare nel presente in una chiave inedita. Riflettendo su come affrontare il progetto sono finito a leggere La metamorfosi delle piante di Goethe. In un passo delle Vicende del manoscritto l’autore racconta in prima persona della propria frustrazione nel vedere questa sua idea rigettata quasi all’unanimità da scienziati, esperti e addirittura dalle sue amiche appassionate di botanica, scontente di quello che lui stesso definisce “questo mio astratto giardinaggio”. È da lì che ho preso il titolo della mostra. Pare che l’unico che avesse preso bene la sua idea di una pianta primigenia fosse un suo amico pittore che però la interpretò come una sorta di matrice ideale per realizzare decorazioni vegetali.
Quindi ti confronti tantissimo con un passato che in un qualche modo ti interessa e ti riguarda?
In realtà io guardo al presente, nel senso che mi rifaccio a cose che incontro nel mio percorso, questo comprende letture di libri scritti in passato e visite a siti archeologici o passeggiate nelle città. Si tratta di materiale che mi affascina e mi tocca nel presente e poi finisce per influenzare il mio lavoro. Chiaramente alcune di queste immagini provengono dal passato, altre dalla contemporaneità ma, come tutti noi, mi nutro del tempo in cui viviamo che è un tempo in cui riceviamo input da ogni epoca. Trovo interessante quello che sosteneva, se non vado errato, Gino De Dominicis quando diceva che in effetti siamo noi gli antichi, quelli con millenni di umanità alle spalle. Non mi interessa l’idea nostalgica di passato, ci sono delle immagini che mi colpiscono, e che trovo attuali. Ho un’idea del tempo disarticolata. È come se queste immagini si sedimentassero nel mio cervello, ignorando ogni gerarchia. Il vero filtro è poi il fare, i limiti del mio agire e delle mie capacità progettuali nel momento in cui provo a dare forma a un dipinto, una scultura, uno spazio.
Generalmente la tua interpretazione pittorica è quella su larga scala. In questo caso però, seppur alcune opere in mostra siano di grandi dimensioni, molte sono state adattate a uno spazio più limitato che necessariamente ti ha imposto alcuni vincoli. Inoltre, contro ogni mia aspettativa, alla fine del percorso, nell’ultimo spazio, sono esposte sette piccoli e graziosissimi dipinti su carta. Che tipo di differenze ci sono, se ce ne sono, in questi due metodi di lavoro e di ricerca?
I vincoli sono ovunque, si tratta di trovare uno spazio di interscambio e, dove possibile, divincolarsi. Le grandi superfici hanno molti più vincoli a ben pensarci, sia in termini pratici sia di lettura del lavoro, trovandosi immerse in un paesaggio, con tutto ciò che esso comporta. I murales mi hanno dato sicuramente visibilità, sono alla portata di tutti e per una questione di monumentalità, si impongono. Ho sempre alternato il lavoro outdoor con il lavoro in studio, che per me sono pratiche complementari. Nel lavoro outdoor, il luogo porta più informazioni visive, più elementi in competizione, trattandosi appunto di un rapporto con il paesaggio, rispetto al classico cubo bianco della galleria. Ma questo non vale, ad esempio, per questa mostra, come ti dicevo l’architettura ha una forte identità con cui bisogna misurarsi. A me interessano tutti i formati: ho una formazione da disegnatore e il disegno è il mio primo amore. Inoltre, per me, lo scambio tra diverse scale è molto stimolante, perché tutto ciò che io faccio in grande prima è stato piccolo, è cioè stato su un pezzo di carta, sotto forma di progetto. Viceversa, quando un lavoro prende dimensioni monumentali può rivelarmi qualcosa di interessante sull’uso di una determinata forma o colore, che magari finisco per riportare in un dipinto. In questo processo si va formando nel tempo una grammatica di forme e idee che si evolve in continuazione.
Per tornare ai piccoli lavori ad acquerello a cui facevi riferimento, si tratta dei primi lavori che ho realizzato, l’incipit del progetto che vedo appunto come forme primordiali, anche nell’esecuzione: pigmento nero, acqua e carta. Mi sembrava interessante presentarli alla fine del percorso insieme a uno dei fusti contenenti le piante, l’unico in terracotta non smaltata.
Il tuo lavoro investe molto sul paesaggio urbano e porta alla luce un’idea di arte diversa rispetto a quella che viene esposta nelle gallerie e viene fruita solo da pochi. Tu entri in un contesto sociale e vi poni la tua arte, non solo il tuo gesto artistico, che può essere osservato, ma anche il risultato finale, a disposizione di tutti. Smantelli l’idea di una vetrina espositiva come unico luogo adatto all’arte e senza intermediazioni, assumendoti probabilmente anche il rischio di non essere capito, ti interfacci con il pubblico che non è solo quello degli “addetti ai lavori”, un po’ come fanno gli street artisti. Ti va di parlarci di questo? Ti consideri uno street artist?
Non mi considero uno street artist, è una definizione che non ho mai amato, la trovo limitante e autoghettizzante. La pittura parietale è una delle più antiche forme d’espressione “artistica” di cui resta traccia documentata, fin dal paleolitico superiore, e precede di diversi millenni l’invenzione del termine street art. Mi considero una persona che si dedica all’arte e che agisce anche, ma non solo, nello spazio urbano. Mi interessa la possibilità di lavorare in vari contesti e aprire il campo. Provengo da una città, Foggia, in cui si vive molto la strada e la comunità, dove non esistevano luoghi preposti all’arte, né l’idea che si potesse vivere di arte. Inoltre, sono cresciuto negli anni dell’esplosione italiana dei graffiti, fenomeno che mi ha molto appassionato da giovanissimo: è stato naturale e intuitivo aderirvi per esprimere la mia creatività nello spazio urbano, sui muri. Il “pubblico” della strada, se così vogliamo definirlo, in realtà è vittima del lavoro degli street artisti, perché di fatto questi dipinti si impongono al loro sguardo, ed è interessante perché può causare emozioni forti: la sorpresa, la meraviglia, l’indignazione. Allo stesso tempo genera anche una frizione che accende una serie di complessi interrogativi che riguardano appunto il senso dello spazio pubblico. Non mi interessa smantellare l’idea della galleria, credo sia fondamentale l’esistenza di luoghi dedicati all’arte, protetti, dove dar voce alle istanze più diverse. Poi, insomma, anche le gallerie sono dei luoghi aperti al pubblico, gratuiti nella maggior parte dei casi, e non sono inaccessibili. Si tratta piuttosto di abbattere il timore reverenziale verso l’arte.
Osservando le tue opere, ho avuto l’impressione che ci sia una sorta di semplificazione visiva e stilizzazione delle forme che riesce, in qualche modo, a esplicitare delle scorciatoie comunicative. Tuttavia, la componente narrativa è molto ampia e la possibilità di immaginare, per il fruitore, diventa una pratica agevole e istintiva. Parlaci di questo effetto, se così possiamo definirlo, e di come e perché usi questo tipo di espressione.
La mia prima formazione artistica è stata più musicale che visiva. Mio padre è agricoltore per professione ma musicista e melomane per vocazione. Sono cresciuto tra i suoi dischi e da bambino mi ha incoraggiato a studiare sassofono e solfeggio. Ascoltava molto jazz, un genere che mi risultava ostico e in cui mi perdevo facilmente, poi però entrava il tema del brano Summertime, ad esempio, e subito trovavo qualcosa a cui aggrapparmi, “…when the living is easy”, per restare in tema. Sono sempre stato interessato agli elementi semplici della musicalità e del ritmo, e forse mi viene più naturale parlare del mio lavoro in chiave musicale. Cerco motivi e melodie, forme intellegibili, sintetiche e personali, su cui poi andare a costruire improvvisando, astraendo, un po’ come si fa negli standard jazz. Questa idea mi guidava molto quando ero studente e cercavo la forma del mio pensiero, poi l’attitudine è rimasta con me e ora è un carattere che si è in parte sedimentato. Forse anche questo ha origine dal fatto che mi sono formato dall’incontro-scontro con la città. Lavorare nelle strade mi ha portato a cercare un linguaggio che mi permettesse di interloquire con chiunque: le forme e il colore sono elementi primordiali che anche un bambino riceve. Mi piace che il mio lavoro abbia la qualità di attrarre lo sguardo di tutti.
Per un aspirante artista oggigiorno sicuramente è più complicato emergere, ed è anche molto difficile riuscire a “vivere” con la propria arte: non intendo solo il sostentamento economico che ne può derivare, ma mi riferisco anche al riconoscimento del lavoro che c’è dietro, che può essere certamente più piacevole di altri ma è un lavoro a tutti gli effetti. Quali difficoltà hai incontrato per entrare nel complicato sistema dell’arte?
Non credo di essere nella posizione di poter dare una risposta. Quello che posso dirti è che io vivo come un privilegio il potermi dedicare full-time all’arte e da essa trarre sostentamento. Ciò è stato possibile perché l’ho cercato con tutte le mie forze e ho guardato senza pregiudizi a tutte le possibilità che mi sono stato date, accettando ogni sfida. Credo che l’arte sia fatta in realtà di vari “mondi” che comunicano a malapena tra loro. Io ho cercato di mantenere alta la curiosità ed entrare senza timore ovunque vedessi uno spiraglio, cercando di creare ponti dove possibile. Tornando al mondo vegetale, da cui siamo partiti, riascoltavo recentemente un intervento di Stefano Mancuso in cui parlava della capacità di problem solving delle piante, e sosteneva, in sintesi, che gli esseri vegetali, essendo sessili, ossia impossibilitati a spostarsi nell’arco della loro vita, sono costretti a risolvere i problemi sul territorio, al contrario di noi umani che affrontiamo i problemi spostandoci, migrando, senza mai realmente risolverli. Direi quindi che, in attesa che la lezione delle piante faccia scuola tra gli umani, sia necessario approfittare, dove possibile, della nostra capacità di spostamento e dedicarci alla ricerca del clima più adatto a far germogliare il nostro lavoro.
Claudia Pansera
Info:
Agostino Iacurci, Of My Abstract Gardening
26/03/2022 – 28/05/2022
Galleria Ex Elettrofonica
vicolo Sant’Onofrio, Roma
Agostino Iacurci, Of My Abstract Gardening, exhibition view, Ex Elettrofonica, Roma. Ph. Andrea Veneri, courtesy l’artista e galleria Ex Elettrofonica
Agostino Iacurci, Of My Abstract Gardening, exhibition view, Ex Elettrofonica, Roma. Ph. Andrea Veneri, courtesy l’artista e galleria Ex Elettrofonica
Agostino Iacurci, Of My Abstract Gardening, exhibition view, Ex Elettrofonica, Roma. Ph. Andrea Veneri, courtesy l’artista e galleria Ex Elettrofonica
Agostino Iacurci, Of My Abstract Gardening, exhibition view, Ex Elettrofonica, Roma. Ph. Andrea Veneri, courtesy l’artista e galleria Ex Elettrofonica
Agostino Iacurci, Of My Abstract Gardening, exhibition view, Ex Elettrofonica, Roma. Ph. Andrea Veneri, courtesy l’artista e galleria Ex Elettrofonica
Agostino Iacurci, Of My Abstract Gardening, exhibition view, Ex Elettrofonica, Roma. Ph. Andrea Veneri, courtesy l’artista e galleria Ex Elettrofonica
Nata a Reggio Calabria nel 1998. A Roma consegue la laurea in Studi-Storico artistici con una tesi sperimentale sull’artista Nik Spatari. Ha scritto per alcuni magazine ed è attualmente studentessa del corso di laurea magistrale in Storia dell’Arte. Apprezza l’arte in ogni declinazione e ama raccontarla.
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