Dai racconti cinematografici in procinto di uscire nelle sale nei prossimi mesi, alle controversie relative a un nuovo metaverso dove il corpo e la vita quotidiana sono trasposti nel mondo virtuale, le tematiche e i problemi affrontati (o da affrontare) rimangono di matrice comune e reale: divisioni, lotte sociali, scontri verbali o materiali. Si parla di dicotomie, memorie che mantengono, creano, collegano identità. Per questo motivo ho scelto di dedicare una riflessione a un regista e artista britannico di fama mondiale, Steve McQueen (Londra, 1969). Chi meglio di lui può incarnare il connubio di azione, sdoppiamento e ambivalenza? Questa fame di cambiamento, questa lotta per la sopravvivenza, per raggiungere e riconquistare la vita? Acclamato dalla critica e posto tra i cento artisti più influenti del momento secondo ArtReview, McQueen ha sempre ricercato la possibilità per lo spettatore di riflettere sulla dualità tra sé stessi e gli altri immergendoci nelle sue “immagini tattili”, portandoci a esperire “sulla nostra pelle” la sofferenza, l’abbandono, la solitudine, la Storia degli uomini.
Il terreno su cui lavora McQueen, formatosi nell’Inghilterra degli anni ‘80-‘90, è inizialmente quello della video arte, sperimentando con l’immagine in movimento. È con Bear (1993) che mostra fin dal suo esordio gli elementi su cui baserà la sua poetica: pochi personaggi, la scelta di inquadrature inusuali, il senso di sdoppiamento e ambivalenza dell’io e dell’altro attraverso il silenzio e il movimento.
La dualità fa riferimento al ricordo personale o storico e, dunque, alla memoria. Le sue opere, dotate di ambiguità e disgiunzione spaziale, temporale e narrativa, immergono completamente lo spettatore, sfruttando tutti i suoi sensi: un cinema, un’arte che vanno oltre la visione, che fanno afferrare, udire nel silenzio, quasi odorare le immagini in movimento portando il corpo verso una percezione su un piano altro. Si analizzano situazioni estreme e ordinarie che prevedono sempre un intermezzo tra l’artista e il soggetto esaminato: l’uso della cinepresa o di qualsiasi altro strumento di registrazione. Inoltre, un sapiente uso del montaggio accompagnato sempre da un particolare angolo di ripresa delle scene attiva vari meccanismi mentali, ricordi, sensazioni, emozioni. Legato al contesto storico e alla memoria è il veicolo e l’origine di queste due entità: il corpo. L’analisi della fisicità umana è meticolosa: close-up molto ravvicinati sui personaggi e gli oggetti creano dei ritratti in movimento (Static, 2009).
In ogni opera si parla di limite e sacrificio: si perlustrano personaggi quotidiani, come in Hunger (2008) e in 12 anni schiavo (2012), la cui qualità di non-attori bressoniani valorizza il messaggio che McQueen vuole inviare. Già nella sua prima pellicola, nel 2008, l’artista si interrogava sull’idea di un cinema – e, prima ancora, dell’immagine in movimento – come medium che testimoniasse eventi storici scomodi. Elementi opposti e complementari che coinvolgono non solo la struttura dell’opera, ma l’esperienza di chi guarda: in video quali Western Deep (2001) o Illuminer (2001) ciò che campeggia sullo schermo è il buio, disturbato ogni tanto da una torcia o da un fascio di luce televisivo che illumina i personaggi e una porzione di spazio circostante. Percepiamo con il senso sbagliato, l’udito, la claustrofobica condizione a cui sono sottoposti i soggetti delle opere. Sentiamo i rumori, udiamo lo spazio intorno a noi – intorno a loro.
L’esperienza del personaggio è amplificata e rompe la quarta parete per diventare esperienza di chi osserva; il pubblico passa da una condizione di passività a una ben più attiva e partecipativa, pur nell’immobilità della sua posizione di voyeur; diventa parte del dramma vissuto dai personaggi. Si scava e ci si addentra a livello simulativo riuscendo a esperire quelle sensazioni che sono proprie di corpi al limite delle condizioni umane.
Quello che ci propone continuamente McQueen è un viaggio in corpi, spazi, esperienze altrui che riconduce immancabilmente a sé stessi; dalla selva oscura della storia, della memoria collettiva, al nostro piccolo hortus conclusus. La quotidianità viene scossa dall’esperienza e dalla narrazione di vite comuni, sconvolte dal caos degli eventi circostanti, dalle novità, dagli equilibri politici internazionali, ma con la forza di fare quel passo in più che l’altro non si aspetta per recuperare quanto gli è stato tolto, per resistere un altro giorno nel buio e sapere che prima o poi risaliremo a vedere le stelle, o ne faremo parte.
Vittoria Brachi
Si ringrazia per l’utilizzo delle immagini:
Steve McQueen
Thomas Dane Gallery
3 Duke Street St James’s
London SW1Y 6BN
UK
Marian Goodman Gallery
24 West 57th Street
New York, NY 10019
Steve McQueen, Bear, 1993. Pellicola 16mm in bianco e nero trasferita su video, proiezione continua, la proiezione riempie l’intera parete. 10 minuti 35 secondi, no suono (muto). Credit: © Steve McQueen. Courtesy the artist, Thomas Dane Gallery and Marian Goodman Gallery
Steve McQueen, Illuminer, 2001. Video a colori, suono. 15 minuti 13 secondi, riproduzione continua. Credit: © Steve McQueen. Courtesy the artist, Thomas Dane Gallery and Marian Goodman Gallery
Steve McQueen, Western Deep, 2002. Pellicola a colori Super8 trasferita su video, suono, 24 min 12 secondi. Credit: © Steve McQueen. Commissionato da Documenta e Artangel. Courtesy the artist, Thomas Dane Gallery and Marian Goodman Gallery
Steve McQueen, Static, 2009. Pellicola a colori 35mm, trasferita in HD, suono. 7 minuti 3 secondi. Credit: © Steve McQueen. Courtesy the artist, Thomas Dane Gallery and Marian Goodman Gallery
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