E se la crisi che stiamo attraversando fosse anche una crisi dello sguardo? Una crisi che porta in sé un ripensamento del tempo, dello spazio, della visione e del riconoscimento? Prima di essere fisicamente presente, oggi, qualunque cosa può esistere nella distanza: un’assenza, un’immagine, un sogno, una percezione o un ricordo. Ammettiamo questo raddoppiamento: assenza e presenza, invisibile e visibile si sostengono reciprocamente.
La forza di questo fenomeno può paralizzare eppure, richiamando all’attenzione tutti i sensi, ha in sé la chiave di accesso a OTO SOUND MUSEUM, il nuovo museo pensato per accogliere opere invisibili. La sfida più intima del nuovo progetto curato da ZAIRA ORAM – collettivo fondato da Francesca Ceccherini ed Eleonora Stassi – e sostenuto da Pro Helvetia, è quella di conciliare l’indubitabile verità che la percezione immediata ha in sé e gli errori, continui, in cui la visione sprofonda.
Paloma Ayala (1980, Messico), Ari Benjamin Meyers (1972, USA), Axel Crettenand (1989, Svizzera), Magda Drozd (1987, Polonia), Vanessa Heer (1989, Svizzera), Jurczok 1001 (1974, Svizzera), Polisonum (Italia), Luca Resta (1982, Italia), Jo Thomas (1972, Regno Unito), Zimoun (1977, Svizzera): sono i dieci artisti, differenti per pratica, geografia di provenienza e generazione, cui il collettivo curatoriale ha scelto o commissionato un’opera sonora che solleciterà esperienze oltrepassando qualunque confine spazio-temporale arbitrariamente imposto.
Elsa Barbieri: Quando è nata l’esigenza di provare a restituire tout court la prossimità con ciò che è non-visibile o lontano? E come essa ha preso la forma di OTO SOUND MUSEUM?
ZAIRA ORAM: Ci troviamo a vivere un’esperienza alla quale non eravamo preparati. Durante il primo lockdown la scorsa primavera, e la chiusura dei luoghi culturali che in diversi stati si protrae fino ad oggi, abbiamo assistito al tentativo incontrollato e controproducente di creare contenuti e piattaforme digitali che permettessero la fruizione dell’arte a ogni costo. Specialmente attraverso la digitalizzazione di interi archivi, la condivisione di video e immagini, che riformulavano la restituzione visiva dell’esperienza culturale. È stato così che, quasi per sfinimento e disamore, e con il desiderio di immaginare e sperimentare qualcosa di inedito, abbiamo pensato al suono. Alla sua potenza sensoriale, alla sua capacità di viaggiare e raggiungere le persone intimamente, nella loro invisibilità, nella loro non presenza. Ripensiamo alla voce della nonna di Eleonora, che fu registrata dalla Croce Rossa Italiana alla fine della Seconda Guerra mondiale e riprodotta a gran volume nei campi dei feriti insieme a molte voci di persone che erano alla ricerca dei loro cari. Questa è una memoria che ci ha portato a ricordare la voce come qualcosa in grado di unire, di ricongiungere. Un suono capace di generare un filo immaginario che può diventare reale. È così che abbiamo trovato il nostro OTO, il nostro suono, che ha preso la forma di un museo diffuso, intangibile e senza geografia. La nostra mission è stata condivisa da Pro Helvetia, che ci ha riconosciuto un finanziamento grazie al bando “Close Distance”. In questo modo OTO SOUND MUSEUM ha cominciato a stringere legami e collaborazioni con istituzioni come RAM – Radio Arte Mobile, con altri sperimentatori come il Büro für Erfrischung, lo studio grafico che si occupa dello sviluppo della piattaforma, e con professioniste come Chloé Dall’Olio per la presenza social e Camille Regli per l’ufficio stampa. E con OTO è nata ZAIRA ORAM, un’identità collettiva per performance curatoriali, che lotta per il diritto di sperimentazione e produzione artistica femminile e non solo.
EB: C’è una parola che collega ciascuno dei dieci artisti scelti al progetto?
ZO: Diremmo “Coraggio”. Per alcuni il coraggio di sperimentare, di costruire, di seguire un’intuizione, di approfondire una ricerca iniziata. Per altri il coraggio di essere donna, il tentativo di creare qualcosa in tempi tanto difficili, di denuncia delle ingiustizie. Per tutti il coraggio di affrontare le proprie radici e migrare col suono.
EB: Il progetto prevede che un’opera al mese sarà allestita nella piattaforma digitale oto.museum. Che spazio sarà?
ZO: Oltre che una parola giapponese, OTO racchiude una struttura architettonica, una sorta di meccanismo. Si potrà entrare in OTO e ritrovarsi in uno spazio espositivo. Pochi testi accompagnano i contenuti audio, nessuna immagine, toni scuri. La piccola città invisibile è già predisposta per ospitare prossimamente l’archivio di una collezione di opere sonore a disposizione per future ricerche e sperimentazioni. Il 21 gennaio inauguriamo la nostra prima mostra, con un’opera dell’audace artista svizzero Zimoun. Siete tutti invitati a provarlo.
EB: Pensando alla collezione come una raccolta di espressioni sonore, meno vetrina di rappresentanza e più mezzo di trasmissione culturale, con una maggiore libertà ma anche una necessità più sentita, che tipo di collezione costituiranno le opere che allestirete nella piattaforma, e che saranno accessibili gratuitamente?
ZO: La sperimentazione sonora ha ancora un enorme spazio di sviluppo. Crediamo che la collezione di OTO possa svolgere sia la funzione di preservare opere intangibili e sia quella di stimolarne la ricerca e l’interesse. Abbiamo tenuto conto dell’eterogeneità delle pratiche di produzione sonora, della partecipazione femminile e della provenienza degli artisti. È molto importante per noi sapere da dove il suono proviene e, allo stesso modo, scoprire dove ci porterà, dove sarà in grado di farci migrare.
EB: OTO SOUND MUSEUM ha una natura intangibile che gli permette di muoversi libero, migrando nel tempo e nella memoria. Provando a scavare nell’idea di suono come metafora della migrazione, da dove e verso dove migriamo oggi? Con quali intenzioni pensate la migrazione umana contemporanea?
ZO: Migrazione è diventata una parola connotata tristemente, quando invece delinea una delle attitudini umane più naturali e belle: la predisposizione al viaggio e al nomadismo. Ora che ci siamo ritrovati improvvisamente rinchiusi nei confini nazionali o addirittura regionali, l’impossibilità di viaggiare, ovvero di effettuare la nostra ordinata migrazione di lusso, ci soffoca. Così siamo diventati nomadi digitali, abbiamo incontrato i nostri familiari in videochiamata, abbiamo visitato il Louvre in 3D e consumato una quantità spropositata di serie Netflix. Perché non sfruttare questo tempo per rivolgere l’esplorazione verso l’interno? Per prenderci la cura di riconoscerci e ritrovarci? Per rimettere insieme i pezzi e le geografie. Per fare pace. Per ascoltare. OTO si propone come una tappa di questo viaggio.
Le parole di Zaira Ora ci conducono al primo appuntamento, fissato per il 21 gennaio con l’opera di Zimoun (1977, Svizzera), Various Vibrating Materials (2020), un paesaggio sonoro organico, primordiale, da ascoltare come una situazione, che si allontana dalla natura tecnologica per solleticar l’immaginazione.
Suono, coraggio, partecipazione, migrazione, viaggio, nomadismo: non importa che parole scegliamo, tutte significano OTO Sound Musem, che permette che un rumore, un odore, un’immagine, un ricordo del passato tornino di nuovo nel presente, ideali senza essere astratti. L’innovativo progetto libera infatti ogni essenza permanente e nascosta, svegliandoci, animandoci e affrancandoci dall’ordine del tempo corrente.
Info:
OTO Sound Museum
https://oto.museum | info@oto.museum
A cura di ZAIRA ORAM
Con il sostegno di Pro Helvetia
Partner: Migrations Museum (Zurigo, CH), Kunst Halle Sankt Gallen (Sankt Gallen, CH), la rada (Locarno, CH), KRONE COURONNE (Biel/Bienne, CH)
Media Partner: RAM – radioartemobile (Roma, Italia)
Instagram: @oto.museum/
Facebook: otosoundmuseum
Press Manager: Camille Regl – camille@oto.museum
ZAIRA ORAM: Francesca Ceccherini, Eleonora Stassi, Chloé Dall’Olio; ph. Axel Crettenand
OTO SOUND MUSEUM, architecture, oto.museum 2021 (giochino con due sfere)
OTO SOUND MUSEUM, exhibition display, oto.museum 2021
Zimoun, 329 prepared dc-motors, cotton balls, toluene tank, installation view, private collection, 2013
Magda Drozd, portrait, courtesy of the artist
Zaira Oram, ear, plaster sculpture, 2020
Crede che l’arte sia una continua ricerca di forme espressive per raffigurarsi il mondo in modi che ancora non conosciamo. Laureata in Lettere, prima si è specializzata all’Università degli Studi di Bergamo con una tesi su cosa resta di una performance, poi ha frequentato la scuola curatoriale presso l’Università di Malta. Dal 2013 collabora con associazioni, spazi espositivi e gallerie come cultural producer e curatrice indipendente.
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