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Pendulum. Merci e persone in movimento

Pendulum. Merci e persone in movimento

Il nostro presente appare imbrigliato in una folle lotta contro il tempo: istantaneità, velocità, efficienza e ottimizzazione sono i valori predominanti della cosiddetta non-stop society, che ha scelto di sintonizzare i propri ritmi con quelli artificialmente instancabili della macchina in attesa di poter adeguare le leggi della fisica all’immediatezza dei sistemi telematici che oggi governano uomini e cose. La voracità del capitalismo globalizzato ha cambiato radicalmente i parametri qualitativi e quantitativi delle nostre esistenze in nome di una competitività esponenziale che sembra aver definitivamente scisso le logiche delle corporazioni dai bisogni reali delle persone che vi lavorano o che ne consumano i prodotti. Comprendere le dinamiche del mondo del lavoro e della produzione industriale (con il relativo indotto in termini di infrastrutture e servizi) è fondamentale per rintracciare l’origine di processi economici e sociali che soverchiano gli individui influenzando le loro abitudini, aspettative e decisioni e insinuando la loro mano invisibile nell’intimità della sfera privata.

Da 5 anni la Fondazione MAST (che sinora ha all’attivo 17 mostre, 3 Biennali Fotoindustria e 3 cicli di borse di studio per giovani artisti) promuove una sistematica ricognizione di queste tematiche attraverso gli sguardi di fotografi protagonisti della scena internazionale che dall’inizio del secolo scorso hanno indagato il rapporto dell’uomo con il lavoro documentando l’evoluzione dei sistemi produttivi e le condizioni esistenziali di chi li esperisce quotidianamente. La mostra Pendulum. Merci e persone in movimento riflette sulle implicazioni del dinamismo della società globale attraverso 250 fotografie storiche e contemporanee di 65 artisti provenienti da tutto il mondo selezionate dalla collezione della Fondazione. Il pendolo, grazie al quale nel 1851 il fisico Léon Focault riuscì a dimostrare la rotazione della Terra intorno al proprio asse, è assurto come metafora di un movimento perpetuo che merci e persone subiscono senza arrivare mai a un approdo finale, ma anche come immagine di un punto di vista mutevole e sempre disponibile a trasformarsi nel proprio opposto quando le logiche del profitto impongono nuovi cambiamenti di rotta. In analogia con il movimento pendolare, anche il baricentro concettuale della mostra oscilla tra due poli contrastanti: il traffico sempre più veloce di merci prodotte nei Paesi in via di sviluppo e destinate all’emisfero ricco del mondo in stridente dissonanza con le lente migrazioni dei perdenti del sistema capitalistico, il cui viaggio è rallentato da barriere fisiche e burocratiche erette per mantenere la loro condizione di marginalità.

Se “la velocità è l’identità del progresso”, come scriveva Saint-Pol- Roux agli inizi del Novecento, la macchina è il feticcio e lo strumento di una società in corsa per superare sé stessa in gara verso una destinazione ignota e questa suggestione ispira la surreale strada retta verso la fabbrica di Robert Häusser,  la costruzione di un’autostrada di Dorothea Lange, che mostra come le carcasse di un incidente stradale saranno prontamente sostituite da nuovi automezzi appena usciti di fabbrica, le sensuali auto da corsa di Ugo Mulas, veri e propri oggetti del desiderio, o la verniciatura in ambiente sterile degli aerei ultraleggeri Eclipse immortalata da Floto + Warner. Oppure le muscolari esibizioni della potenza delle locomotive di Jakob Tuggener e O. Winston Link, le monumentali navi da carico fotografate da Luca Campigotto nel porto di Marghera o gli invisibili flussi di dati veicolati da cavi e immagazzinati da hardware ritratti con sguardo chirurgico da Henrik Spohler.

I mezzi di trasporto impongono i propri tempi a persone e merci, la cui circolazione e disposizione si deve adattare alla conformazione e ai ritmi innaturali dei veicoli che il sistema predispone per i loro spostamenti. Se Mimmo Jodice negli anni ’60 ritrae la lenta migrazione degli operai in fuga dalla disoccupazione in stazioni che appaiono come luoghi degli addii dagli affetti familiari, Alexey Titarenko raffigura il frenetico affollamento agli accessi alla metropolitana Vasileostrovskaya come un indistinto assembramento di ombre inquiete. David Goldblatt documenta lo scomodo viaggio degli operai di KwaNdebele, bantustan istituito dal governo sudafricano durante l’epoca dell’apartheid come riserva per l’etnia Matabele, costretti ogni giorno a un’interminabile trasferta per poter lavorare, mentre Helen Levitt ritrae i passeggeri della metropolitana di New York interpretandola come un inesauribile crocevia di sguardi, stati d’animo e storie. Lo scenario cambia radicalmente nelle immagini di Jacqueline Hassink, che quarant’anni dopo fotografa i pendolari di sette capitali contemporanee assorti nel viaggio virtuale offerto dai loro dispositivi telematici come se volessero estraniarsi dal tragitto reale che stanno percorrendo.

Il trasporto come mestiere diventa uno stile di vita e l’automezzo quasi un’estensione del conducente, come sottolinea Annica Karlsson Rixon nella sua tassonomica collezione di foto di camion bianchi, che rivela un’incredibile gamma di variazioni sul tema, analogamente ai container immortalati dall’alto da Sonja Braas, la cui ordinata sovrapposizione crea una raffinata composizione astratta. Queste forme razionali e asettiche possono nascondere imprevisti ed elementi incontrollabili, come rileva Richard Mosse in una grande panoramica di un’area portuale realizzata con una termocamera (strumento ottico in grado di rilevare a distanza le differenze di temperatura), in cui identici containers vengono utilizzati per lo stoccaggio delle merci e come abitazione provvisoria per i migranti in attesa di sapere se otterranno i permessi per proseguire il loro viaggio o se saranno reimbarcati verso i loro Paesi d’origine. Se la velocità sembra essere la principale prerogativa dei forti, agli svantaggiati non resta che aspettare, come i braccianti a giornata ritratti da Ulrich Gebert, che prima dell’alba si ritrovano in luoghi convenuti nella speranza di essere reclutati per faticosi lavori agricoli e che vengono scelti da anonimi committenti all’interno di furgoni come se fossero essi stessi un carico di merce. La sconfitta sociale coincide infine con l’immobilità forzata, come denunciano le foto scattate da Xavier Ribas che documentano l’avvenuta demolizione di un’area industriale dismessa di Barcellona, le cui macerie non sono state intenzionalmente rimosse per impedire agli zingari che vi si erano accampati di tornare.

Info:

Pendulum. Merci e persone in movimento. Immagini dalla Collezione di Fondazione MAST
a cura di Urs Stahel
4 ottobre 2018 – 13 gennaio 2019
MAST
Via Speranza 42 Bologna

Robert Häusser, Strada per la fabbrica, 1980 Stampa ai sali d’argento, 29,5 x 41 cm © Robert Häusser – Robert-Häusser-Archiv / Curt-EngelhornStiftung, Mannheim

Floto + Warner, Sala verniciatura dell’Eclipse, Eclipse Aviation, Albuquerque, NM USA, 2007
 Stampa a pigmento, 40,6 x 50,8 cm © Floto + Warner

Alexey Titarenko, Stazione della metropolitana Vasileostrovskaya (Variante Folla 2), dalla serie “Città delle ombre”, 1992 © Alexey Titarenko, courtesy of Nailya Alexander Gallery, New York

Annica Karlsson Rixon, Camionisti (bianchi), 1994-1999 736 stampe digitali a colori montate su d-bond 8,5 x 12,5 cm ciascuna © Annica Karlsson Rixon


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