Tra luglio e settembre, a seguito delle restrizioni imposte dal lockdown, studioconcreto ha potuto finalmente organizzare la serie di incontri previsti nell’ambito dell’iniziativa Performance di Parola tra Gesto e Architettura nel quartiere INA-Casa di Lecce. Il progetto, vincitore del premio “Creative-Living Lab – II Edizione, 2019” promosso dalla Direzione Generale Creatività e Rigenerazione Urbana del MiBACT, ha visto la partecipazione dei collettivi Claire Fontaine, Casa a Mare, Post Disaster e PLSTCT, di Roberta Mansueto (takecare) e Marta Oliveri, di Pietro Gaglianò e Simona Cleopazzo – quest’ultima ha anticipato ogni evento con il ciclo di conversazioni a domicilio intitolato Appunti per un nuovo femminismo. Dalla stanza tutta pe sé all’eco-femminismo. Abbiamo intercettato i protagonisti degli incontri per farci raccontare la loro esperienza.
Antongiulio Vergine: Unauthorized Reproduction for Functional Purpose del collettivo PLSTCT chiude la serie di incontri organizzati tra luglio e settembre nell’ambito di Performance di Parola tra Gesto e Architettura. Qual è il resoconto di queste esperienze?
studioconcreto: Il resoconto delle esperienze degli ultimi mesi, che proveremo a sintetizzare con le parole che seguono, si inserisce in una narrazione che comprende il lungo periodo complesso – ancora in corso – che abbiamo provato ad “abitare” e che inevitabilmente ha influito sui lavori dei collettivi invitati, soprattutto per quel che riguarda le correlazioni pubblico/opera – pubblico/evento. Non sempre però queste limitazioni influiscono negativamente sui rendimenti significativi dei flussi creativi, i quali, proprio in questi momenti di crisi trovano vigore e reagiscono con una forte produzione di senso e di analisi. Ciò nonostante, tornare a guadagnare letteralmente pubblico e strada (tutti gli interventi sono stati studiati per essere esperiti nel contesto urbano), non è stato facile. La complessità nel gestire il contesto di emergenza, non solo per quel che riguarda la sicurezza, ci ha portato a rivedere alcune caratteristiche del processo. Principalmente ne ha risentito il nostro modus operandi che solitamente prevede lunghi periodi dedicati a una singola collaborazione, pratica che ci spinge ad approfondimenti accurati con i soggetti invitati e che aiuta a rafforzare la relazione tra artisti coinvolti e ambiente circostante. Questa volta però, ad eccezione della mostra I – WE – YES e dell’incontro con il collettivo Claire Fontaine che ha aperto a luglio il ciclo di incontri Performance di Parola Tra Gesto e Architettura, abbiamo riconfigurato il programma optando per una formula che unisse i diversi interventi in tre giornate consecutive. Partendo dal nostro interesse per l’interazione tra luoghi e linguaggi artistici, da cui scaturisce l’analisi della prossemica degli spazi non convenzionali che sfuggono alla pianificazione progettuale istituzionale, ci siamo spinti ad abbandonare la comfort zone dello spazio espositivo per portare la nostra ricerca in strada. Questo è avvenuto nel quartiere dove viviamo, che non coincide e non si identifica con la città a propensione turistica – qual è Lecce – che in questo territorio implica e condiziona le scelte culturali e non solo. La volontà è di considerare l’azione politica slegata dalla retorica di riqualificazione dei luoghi attraverso l’intervento performativo e la fisicità dei corpi che interagiscono con le architetture. Attraverso linguaggi divergenti, l’occasione è stata quella di risignificare termini come “relazione”, “bene comune”, “partecipazione”, favorendo – senza forzature, strutture o schemi progettuali – la possibilità di connessione tra i cittadini e lo spazio in cui si abita.
Da quali premesse nasce il laboratorio corpotesto e come si è sviluppato in rapporto al quartiere INA-Casa di Lecce?
Roberta Mansueto (takecare): corpotesto nasce da una lenta conoscenza e corrispondenza via email tra me e Marta Olivieri durante il lockdown. Mentre passavano le settimane (e i mesi), le nostre conversazioni approfondivano le pratiche, ma diventavano anche un’insolita e confidenziale osservazione quotidiana di ciò che si stava modificando in noi: le nostre emozioni, i nostri corpi, le informazioni che a pioggia ci spostavano lo sguardo e ciò che percepivamo possibile nel presente/per il futuro (ancora oggi indeterminato). Abbiamo iniziato così a condividere delle letture, che io avevo da tempo iniziato su temi quali etnobotanica, ecologia ed eco-femminismo, e podcast come quelli prodotti da Teatro India (nello specifico Nausicaä. Vivere tra le rovine). Per Marta questo costituì l’occasione di pensare – insieme – a un laboratorio che potesse mettere in relazione corpo e scrittura. Abbiamo quindi cominciato a immaginare la realizzazione del laboratorio per strada, all’aperto, nell’incontro dei corpi, nel nostro incontro (mio e di Marta), inseriti nel “paesaggio” del quartiere che in quel preciso momento stava vivendo una presenza autonoma e l’assenza di corpi umani. La prima cosa che ho osservato, durante un sopralluogo, sono stati gli alberi di eucalipto invasi dalla psilla (Glycaspis Brimblecombei), che stava procurando loro una evidente defogliazione: da qui l’idea di aprire a una riflessione sensibile sul “verde” del quartiere, probabilmente unico contatto con “l’esterno-natura” dei residenti (durante il lockdown si scriveva spesso di avvistamenti di uccelli, dei giardini pubblici, degli animali che si avvicinavano alle città, come se improvvisamente tutto fosse più visibile e straordinariamente esposto). Facendo una ricerca su quell’invisibile ospite, scopro, grazie a un noto attivista locale, che la psilla si diffonde più facilmente a causa della non corretta potatura degli alberi. Inoltre, alcuni studi affermano che l’insetto sia giunto in Italia dall’Australia intorno al 2010. Partendo dal “verde del quartiere” e dalla strada (una pista ciclabile all’interno del quartiere che stimola un muoversi ecologico, ma che, attraverso un varco tra due palazzi, apre a una circonvallazione molto trafficata), abbiamo pensato così a un esercizio di eco-composizione su più livelli: sui nostri corpi, sulla relazione spazio/natura e sul linguaggio attraverso la lettura di testi selezionati e le pratiche (brevi esercizi di allineamento, respirazione, connessione propriocettiva) curate da Marta, in un quartiere ormai tornato alla sua vitalità, percepibile anche dal passaggio curioso dei suoi abitanti.
Sembra esistere un (robusto) fil rouge tra il progetto Nuova Didattica Popolare, il tuo libro La sintassi della libertà. Arte, pedagogia, anarchia e l’ultima esperienza della Lezione popolare. Quanto è importante avvicinare la comunità all’arte (e viceversa) e quali “zone d’ombra” cerchi di attivare/investigare attraverso questi incontri?
Pietro Gaglianò: La pedagogia (nelle sue declinazioni radicali, libertarie e antigerachiche) è per me un modo di pensare il contemporaneo e di agire come critico d’arte, curatore, attivista. Parto dal presupposto che l’apprendimento sia un atto volontario, attivato in un campo di relazione in cui il docente può fare da catalizzatore senza porsi in cattedra. L’esperienza dell’arte si gioca in dinamiche analoghe a quelle della comprensione. Da qui in poi diventa necessario (e avventuroso e terrorizzante) portare questa possibilità fuori dai luoghi comuni, disarticolando l’architettura gerarchica dell’educazione tradizionale. Nell’incontro con le comunità, anche le più eccentriche rispetto ai poli della produzione artistica, prendono forma un arricchimento e un’amplificazione dell’arte e della pedagogia che arricchiscono tutti gli attori (paritariamente) in gioco. Di tutto questo non riesco più a fare a meno.
Cosa si nasconde dietro l’apparentemente semplice operazione di Prima Casa? Quali considerazioni si porta dietro?
Casa a Mare: La piastrella in ceramica, realizzata appositamente per il fabbricato INA-Casa, si pone come sintesi di un percorso di analisi e appropriazione sia delle componenti plastico-figurative sia degli aspetti storico-sociali legati al celebre piano di edilizia residenziale pubblica. Il progetto per la realizzazione di case per lavoratori, voluto alla fine degli anni Cinquanta, coinvolgeva il meglio dell’architettura italiana e prevedeva una messa a sistema di un piano di ricostruzione che al contempo potesse essere anche un grande laboratorio sull’abitare urbano. Ne venne fuori una rivoluzione urbanistica (e sociale) senza precedenti. Le formelle ceramiche che costellano questi edifici, oltre a essere l’esempio di questa volontà, rappresentavano il sigillo simbolico che denotava l’importanza del valore sociale e l’interesse nei confronti dell’arte che aleggiava attorno l’intero piano. L’intento era chiaro: “Ottenere quartieri meno anonimi e creare maggiore appartenenza e riconoscibilità degli abitanti per il proprio edificio e il proprio alloggio”. Nell’ottica di queste motivazioni, che rispecchiano alcune attitudini presenti nella ricerca di Casa a Mare, e lasciadoci ispirare da quei “quadrelli d’artista”, abbiamo pensato di produrre una targa in terracotta con l’intento di incastonarla in uno dei muri dell’edificio ex-INA che accoglie studioconcreto, e che risulta privo della sua piastrella originale. Ne è nata Prima Casa, di fatto la prima opera pubblica permanente del collettivo Casa a Mare, nonché la sintesi di un processo partito da una citazione riferita a una fotografia scattata nel 1980 da Ettore Sottsass sull’isola di Ponza. Nella foto compaiono un albero di fico e delle panche: per il designer e architetto italiano questa immagine coincideva con l’idea di dimora minima ed esprimeva il sentimento mediterraneo dell’abitare. Una visione dell’architettura che elogia la cultura del recupero, l’ammirazione per la sapienza artigianale e la meraviglia per le intuizioni spontanee.
Com’è nata l’idea della performance Rooftop Landing e quale messaggio avete voluto trasmettere alla comunità del quartiere?
Post Disaster: I nostri Rooftops sono sempre stati concepiti come performance collettive in cui un gruppo di persone si incontra per occupare e abitare temporaneamente un tetto. Il concetto di Rooftop Landing è una suggestione site-specific legata al tetto della palazzina dove ha sede studioconcreto, che, rivestito di vernice di alluminio termo-riflettente (un materiale d’uso comune per impermeabilizzare i terrazzi), lo fa somigliare a un paesaggio lunare o alieno: uno spazio arido, ma fertile rispetto alla possibilità di immaginare un habitat. I partecipanti sono stati accolti da una serie di totem, ossia antenne che “emanano” avvertimenti fondamentali estratti dal testo di Chantal Mouffe Il conflitto democratico. Il nostro intervento invita a interpretare il tetto come uno spazio pubblico dove sperimentare nuovi modi di relazione tra corpi e paesaggio urbano, al di fuori da sistemi di controllo e regolamentazione. In questo caso corpi collettivi, dal momento che abbiamo fornito un materiale di dimensioni volutamente esagerate: due strisce di 15 metri di lunghezza, le quali necessitano della collaborazione tra le persone per poter essere modellate nello spazio. Il messaggio che l’happening cerca di veicolare, oltre a una riflessione intrinseca sul senso e sull’uso normato dello spazio urbano, punta a una comprensione dell’architettura come un processo collettivo, in contrapposizione alla verticalità progettista/abitante. La diversità e le stratificazioni sociali presenti oggi nel quartiere ex-INA in cui si trova studioconcreto rappresentano così un contesto ideale per riflettere sulle parole di Mouffe.
Come si lega la vostra operazione all’esperienza dell’artista Charlotte Posenenske? Essendo l’ultimo appuntamento della serie di incontri nati da Performance di Parola tra Gesto e Architettura, quali riflessioni racchiude?
PLSTCT: La prima volta che abbiamo visto un lavoro di Posenenske non avevamo nemmeno realizzato si trattasse di un lavoro scultoreo: pensavamo fossero provocazioni architettoniche. Dopo vari approfondimenti, il suo lavoro è diventato ormai un riferimento dal punto di vista ideologico, prima ancora che formale – nel 1968 lasciò il mondo dell’arte con una lettera in cui definiva le sue opere come semplici oggetti relazionali, rifiutandone quindi la categorizzazione di “opera d’arte”. Il nostro tributo al suo lavoro consiste nell’esasperare definitivamente la sua idea di democratizzazione dell’opera trasformandola in un basamento, nient’altro che un oggetto funzionale all’esposizione di altri lavori: questa operazione ci permette di generare una riflessione tra i confini che separano il funzionale e il non-funzionale, e quindi design e arte, che nella nostra pratica tendono ad assottigliarsi molto. In quanto architetti che lavorano spesso in contesti prevalentemente artistici, ci siamo più volte posti domande sul tema del limite tra arte e design, al punto da farlo diventare quasi uno strumento progettuale. Inoltre, i moduli di Posenenske (ispirati ai canali di ventilazione dell’aria) ci invitano a una riflessione sull’abitare umano, inteso come un processo – in continua evoluzione – di immunizzazione verso l’esterno, una sorta di distaccamento intenzionale dall’ambiente accompagnato a un controllo e a un addomesticamento degli elementi. Questo processo avviene attraverso il design, e il controllo dell’aria (quindi dell’atmosfera) è una delle espressioni più evolute dell’architettura. L’intervento si colloca all’interno di una ricerca a lungo termine, Creatures of Habit, che cerca di indagare il complesso sistema di relazioni che esistono tra i corpi, lo spazio e l’ambiente. La ricerca prende in considerazione le funzioni umane elementari – come respirare o dormire – intese come pratiche che, seppur vitali e comuni a (quasi) tutti gli organismi viventi, sono condizionate da sovrastrutture socio-culturali e infrastrutture tecnologiche che ne hanno modificato i patterns evolutivi. Con il video Breathing (2020), commissionato da studioconcreto per la piattaforma exscenario, avevamo già affrontato il tema, e questo intervento porta avanti la riflessione in quella direzione.
Antongiulio Vergine
Info:
Performance di Parola tra Gesto e Architettura
studioconcreto, via Francesco Ribezzo, 5-3, Lecce (LE)
info@studioconcreto.net
www.studioconcreto.net
@studio.concreto
Post Disaster, Rooftop Landing, ph. Alice Caracciolo. Courtesy studioconcreto
Post Disaster, Rooftop Landing, ph. Alice Caracciolo. Courtesy studioconcreto
Post Disaster, Rooftop Landing, ph. Alice Caracciolo. Courtesy studioconcreto
Roberta Mansueto e Marta Olivieri, corpotesto, ph. Alice Caracciolo. Courtesy studioconcreto
Roberta Mansueto e Marta Olivieri, corpotesto, ph. Alice Caracciolo. Courtesy studioconcreto
Simona Cleopazzo, Appunti per un nuovo femminismo, ph. Alice Caracciolo. Courtesy studioconcreto
Simona Cleopazzo, Appunti per un nuovo femminismo, ph. Alice Caracciolo. Courtesy studioconcreto
Casa a Mare, Prima Casa, ph. Alice Caracciolo. Courtesy studioconcreto
Pietro Gaglianò, Lezione Popolare, ph. Alice Caracciolo. Courtesy studioconcreto
PLSTCT, Unauthorized Reproduction for Functional Purpose – a tribute to Charlotte Posenenske, ph. Alice Caracciolo. Courtesy studioconcreto
Nato a Campi Salentina (LE). Dopo la facoltà triennale di Tecnologie per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali presso l’Università del Salento, frequento il Corso di Laurea Magistrale in Arti Visive presso l’Università di Bologna. Ho collaborato con la Galleria d’Arte Maggiore g.a.m. di Bologna e con il MUMA – Museo del Mare Antico di Nardò (LE). Mi interessano le vicende riguardanti l’arte contemporanea, in particolare quelle legate alle pratiche video-fotografiche e performative. Scrivo per ATPdiary e Juliet Art Magazine.
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