Piero Manai (Bologna, 1951-1988) è una delle figure più enigmatiche della pittura contemporanea, un artista solitario e tormentato che, come scriveva Umberto Eco nel 1991, “dopo Giorgio Morandi stava continuando il discorso della grande pittura bolognese”. Morì a soli 37 anni lasciando uno straordinario corpus di opere e il rimpianto di non poter vedere dove sarebbe approdato il suo discorso artistico se avesse avuto l’opportunità di svilupparlo ulteriormente. In due decenni di instancabile ricerca, l’artista sperimentò diverse tecniche figurative – dal disegno, alla pittura a olio, alla fotografia – orientandosi inizialmente verso una figurazione di stampo iperrealista e pop per poi sfociare in una gestualità inquieta che lo portava a lacerare l’immagine e a riplasmarla in senso quasi scultoreo.
La tensione psicofisica della pittura dell’ultimo periodo ha origine in una concezione quasi demonica della vita e risente dell’espressionismo mitteleuropeo che in quegli anni enfatizzava la corporeità come veicolo di immediatezza e intensità. Le tematiche del trauma, della sessualità e della morte si incontrano qui con un’ostinata riflessione sulla pittura nell’intento di creare un’impossibile simbiosi tra oggettività, individualità e astrazione. E proprio questa lucida fissazione evita, in ogni sua opera, lo smembramento e la dissoluzione irreversibile nelle profondità dell’inconscio, individuando un principio di unità originaria che fa sopravvivere la forma alla mutilazione gestuale. Si potrebbe parlare di un suo istintivo affidamento alla tangibilità e alla consistenza del colore, che scorre sulla tela in un libero flusso pittorico ma finisce sempre per aggregarsi in dense allusioni volumetriche.
Le gallerie P420 e CAR DRDE, in collaborazione con gli eredi di Piero Manai, presentano fino al 9 novembre una mostra congiunta, la più completa dopo la grande retrospettiva curata all’ex GAM di Bologna da Peter Weiermair nel 2004, dedicata agli ultimi dieci anni della produzione dell’artista. Il doppio percorso espositivo, cronologico e tematico, vede protagonista la figura umana nella galleria di Alessandro Pasotti e Fabrizio Padovani e la natura morta in quella di Davide Rosi. Il confronto fra i due generi figurativi, i principali su cui l’artista si sia concentrato, fa emergere la coerenza del suo approccio nell’affrontare lo stesso oggetto pittorico che sembra riproporsi ossessivamente in due sembianze complementari.
La selezione di opere in mostra da CAR DRDE evidenzia il passaggio dalle nature morte dei primi anni ’80, infinite variazioni sul tema del classico cesto di frutta di caravaggesca memoria concepite come strutture pittoriche aperte ed energetiche individuate da pennellate che disegnano contorni e riflessi luminosi, ai dipinti apparentemente più quieti degli ultimi anni, che raffigurano composizioni di solidi astratti, non più direttamente riconducibili alle apparenze del reale. Qui la tensione dell’immagine, non trovando sfogo nel gesto liberatorio della pennellata rapida e nervosa, si traduce in un potenziale trattenuto, quasi sul punto di implodere. La pittura si fa consistente e stratificata, le allusioni volumetriche si traducono in sensazioni di gravità e peso, enfatizzate da una luce tutta mentale che ipnotizza l’osservatore. Non c’è racconto né temporalità, i solidi si impongono allo sguardo come materiale di rappresentazione che sintetizza visioni, simboli e significazioni. In particolare, i solidi ovali, estreme condensazioni del frutto o della pietra, sono al tempo stesso teste ancestrali e “pesi”, quei fardelli tanto peculiari di Manai che tutte le sue creature sono destinate a portare, mentre i parallelepipedi di base, i suoi altrettanto caratteristici “monoliti”, potrebbero essere corpi degenerati e murati vivi nella pittura.
Queste composizioni sono l’anello di congiunzione più emozionante tra l’oggetto e il corpo e ci traghettano verso le opere in mostra alla P420, che mostrano la parallela evoluzione del pittore nell’interpretazione della figura umana. In ordine cronologico, si parte qui dagli “scorticati” dei primi anni ’80, che presentano l’uomo come complicata intelaiatura di pennellate che compendiano muscoli, ossa e condizioni esistenziali. Ogni personaggio appare intento nella propria solitudine, aggravata dalla frequente presenza di “doppi” che ne intensificano il disagio, in un reciproco e disperato rispecchiamento. A volte dell’uomo rimane solo la testa che, privata dei tratti fisiognomici, esibisce disfacimenti e deformazioni più eloquenti di qualsiasi espressionismo. La sostanza psichica si traduce in labirintici grovigli di pennellate che non conducono verso nessun centro e che talvolta colano al di fuori dei confini della figura per irrorare lo sfondo.
Con il passare degli anni questa complessità fisica e mentale acquisisce una poderosa monumentalità, dovuta sia alle grandi dimensioni delle tele che all’addensarsi della materia pittorica in pennellate fuse e sostanziali. La figura tenta di proteggersi, si ripiega e si rinchiude in sé stessa fino a perdere anche i più elementari appigli di riconoscibilità e diventa una pietra, un parallelepipedo dagli angoli arrotondati o una stele enigmaticamente circondata da uno sfondo neutro. Una fase intermedia di questa trasmutazione si potrebbe individuare nella serie a olio su plastica intitolata Figura nel paesaggio (1987), a mio avviso, la sequenza più commovente di tutta la mostra per la sua nuda semplicità. In questa successione di dipinti di piccolo formato vediamo dolorose sagome umane accovacciate in posizione fetale sospese nel vuoto come fiori senz’altro appiglio che un debole stelo di materia pittorica espulsa da un invisibile orifizio.
Manai considerava i suoi soggetti come una sorta di autoritratti visti da dentro, come costruzioni anatomiche e psichiche che “mettevano a dura prova la figura per raggiungere una soglia”. A conferma di questa chiave di lettura, in entrambe le gallerie troviamo preziosi esempi delle Polaroid in cui l’artista, intervenendo sulla pellicola durante il tempo di esposizione o a posteriori con interventi pittorici, si auto-ritraeva deformando la propria immagine nell’intimità di un esibizionismo solitario.
Info:
Piero Manai
27 settembre – 09 novembre 2019
P420
Via Azzo Gardino 9 Bologna
CARDRDE
Via Azzo Gardino 14/a Bologna
Piero Manai, exhibition view at CAR DRDE
Piero Manai, Natura morta, 1988, oil on paper mounted on canvas, 60×60 cm courtesy CAR DRDE
Piero Manai, exhibition view at P420
Piero Manai, Testa, 1985, olio su carta intelata/oil on paper mounted on canvas, cm.75×105 courtesy P420
Piero Manai, exhibition view at P420
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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