Il 15 novembre 1974 la galleria De’ Foscherari inaugurava la mostra “Ghenos, Eros e Thanatos” in cui il curatore Alberto Boatto, uno dei più radicali critici d’arte del periodo, riuniva 13 artisti all’insegna dell’erotismo inteso come forza trainante che collega i due estremi della nascita e della morte. I lavori di Boetti, De Dominicis, Fioroni, Kounellis, Pisani, Cintoli, Mauri, Mattiacci, Pozzati, Burri, Patella, Zorio e Fabro esposti in quell’occasione compongono un itinerario di situazioni-limite in cui ogni tappa si configura come prova iniziatica per il raggiungimento del significato che si nasconde nell’insignificante gratuità del caso. Nel libro-mappa che accompagnava la mostra le circostanze ordinarie e ineluttabili dell’esistenza si ricongiungono alla loro antica matrice mitologica e archetipica mantenendo al tempo stesso le stigmate di una dolorosa e viscerale incarnazione in cui l’essere umano è la vittima sacrificale di un imperturbabile destino-carnefice che riconduce la sua singolarità al coagulo universale in cui la morte è il nutrimento della vita. La scrittura vampiresca di Boatto, che condensa l’indifferenza dandistica di Duchamp, la crudeltà cerimoniale di Artaud, la freddezza chirurgica del Marchese De Sade e altre suggestioni disforiche della letteratura contemporanea, ricollega questa circumnavigazione del perturbante alle grandi tragedie dell’epoca moderna come l’Olocausto, lo scacco storico ed esistenziale del postmodernismo e l’orientamento della società contemporanea in direzione dell’impersonalità e dell’anonimato. Alla morte indiscriminata e totalitaria della natura si sovrappone quindi la morte storica dell’uomo ridotto a materiale e oggetto di scambio in una lacerante intuizione degli esiti di un processo epocale che in quel periodo era ancora in embrione.
A distanza di 43 anni la stessa galleria ospita una nuova mostra, concepita come evocazione medianica, che ribadisce la centralità delle tre istanze basiche individuate da Boatto in consapevole opposizione a certe diffuse tendenze dell’arte contemporanea che sembra sempre più defilata rispetto ai fatti che influenzano in modo tangibile la nostra esistenza. Sulla base delle immagini e del testo che accompagnarono la mostra storica, Paolo Chiasera riporta in vita il passato con un’installazione ambientale progettata come spazio curatoriale in cui opere di artisti delle ultime generazioni variamente incentrate sulla morte, la rinascita e l’aldilà si relazionano con quelle esposte allora per rigenerarne la portata rivoluzionaria. Il dispositivo, generato dall’innesto del principio degli Exhibition Paintings (raffigurazione di una mostra di opere dipinte) nelle strutture abitabili di Secondo Stile, individua una sorta di superamento e conservazione dei due generi precedentemente creati dall’artista facendo convergere la dimensione performativa legata alla vita nella fisicità evocata o reale delle opere rappresentate o realmente presenti nel display. A questo modo Chiasera si propone come intermediario curatoriale di una seduta spiritica in cui il medium pittorico viene utilizzato in modo profanatorio trasformando uno spazio mentale solitamente contemplativo in un luogo di contatto psicanalitico. I pannelli che ospitano labili tracce visive dei lavori esposti negli anni ’70 e fragili squarci e gradazioni traslucide che materializzano i vuoti di memoria destinati ad amplificarsi con il passare del tempo funzionano come ipertesto di raccordo tra passato e presente superando l’horror vacui della pagina bianca con l’eco delle parole del critico fiorentino recentemente scomparso. Mentore ideale dell’operazione è infatti Boatto, che poco prima di morire consegnò un ultimo testo critico inerente alla mostra, ritratto da Chiasera ibridandone le sembianze con quelle del poeta-negromante Cecco d’Ascoli condannato al rogo dall’Inquisizione romana per il suo pensiero religioso eterodosso.
Il percorso espositivo si dipana in una fitta rete di rimandi e confluenze a cominciare da Father, forma minimale e performativa di Vajiko Chachkhiani, generata da un uomo seduto con i piedi intrappolati in un blocco di cemento che conserverà per sempre le impronte della sua assenza. Tortura edipica in cui il padre passivo e neutralizzato continua a ispirare soggezione dal suo trono, richiama Lo Scorrevole (1972), costrizione incestuosa di Vettor Pisani o Lo Spirato (1972) di Luciano Fabro in cui la traccia di un corpo mancante diventa scultura e cavità mimetica. Se Boatto parlava di “cerimoniale di messa a morte interrotta” per rimarcare la differenza tra la compiutezza catartica della tragedia antica e il suo differimento all’esterno dell’opera nel cerimoniale artistico moderno, anche Anca Munteau Rimnic in Invention of Time Passed as a Carpet mostra una sospensione e le possibili deviazioni che ne aprono l’accesso alla vita. Un ordito di fili bianchi di lana sostiene una trama di fili colorati a mano con diverse sfumature di nero che si interrompe a metà per poi raggomitolarsi ai piedi dell’opera in un groviglio di eventualità non esperite in una lapidaria rappresentazione del nostro rapporto a breve termine con la morte. Il filo nero, nella sua ambigua valenza di rope-hope, ritorna nella performance che risolve l’interruzione in ripetizione perpetua: un moderno Sisifo è eternamente condannato a tirare a sé la stessa corda senza arrivarne mai a capo, simboleggiando l’ostinata curiosità e fiducia che obbliga l’uomo ad agire per cercare risposte che forse gli saranno sempre precluse.
Aspira invece a una nuova rinascita o alla sparizione definitiva Riccardo Previdi che in Cocoon si fa immobilizzare e avvolgere da una membrana elastica brevettata negli anni ’50 per proteggere gli aeroplani e i carri armati americani esportati via mare in Europa perché non fossero intaccati dalla salsedine. Privato del controllo del processo di creazione dell’opera, l’artista mette in scena una specie di regressus ad uterum sintetico che dialoga a distanza con La Crisalide (1972), performance in cui Claudio Cintoli appeso a testa in giù in un sacco chiuso cercava faticosamente una via d’uscita, e con l’analogo interramento di Pino Pascali nel video comportamentale SKMP2 (1968) di Luca Maria Patella. Immolando se stesso per trasformarsi in oggetto commerciale, l’artista richiama inoltre le macabre collezioni di oggetti proposti da Fabio Mauri in cui gli ebrei diventavano letteralmente materia prima di produzione di beni consumistici ipotizzando i possibili esiti della vittoria dell’ideologia nazista. Anche se fortunatamente questa macabra profezia non si è mai avverata, l’adulterazione sostanziale e visiva del nostro mondo intossicato da fobie e dipendenze è un dato di fatto conclamato, come ci ricordano gli iperrealistici Dunuts bronzei di David Adamo, oggetti ansiosi disposti a terra in lugubre circolo dove un tempo giaceva la Corona di piombo (1969) di Luciano Fabro.
“Gino De Dominicis augura a tutti l’immortalità del corpo”, recitava il Biglietto d’auguri del 1971 e l’analogo auspicio che dopo la morte possa esistere sempre una nuova vita per l’arte è forse, come sottolinea il testo di presentazione scritto da Antonio Grulli, il significato più profondo di questa profanazione artistica che riattiva vecchi demoni mai sopiti amalgamandoli in chiave più fredda con le nuove ossessioni del presente nell’altrove di un impossibile tempo continuo.
Profanation: Eros, Ghenos, Thanatos
Curatorial medium: Paolo Chiasera e Antonio Grulli
Artisti: David Adamo, Vajiko Chachkhiani, Keren Cytter, Riccardo Previdi, Anca Muntenau Rimnic, Mathilde Rosier
25 marzo 2017 – 26 maggio 2017
Galleria De’ Foscherari
Via Castiglione 2b Bologna
Anca Munteau Rimic, Invention of Time Passed, as a Carpet, 2012, Unique Hand dyed wool, 7 different black tones 200 x 220 cm e Paolo Chiasera, Profanation: Ghenos, Eros, Thanatos, 2016, 350 x 240 cm, courtesy Galleria De’ Foscherari
dettaglio: Paolo Chiasera, Profanation: Ghenos, Eros, Thanatos, 2016, 350 x 240 cm, (particolare), courtesy Galleria De’ Foscherari
Paolo Chiasera, Profanation: Ghenos, Eros, Thanatos, 2016, 350 x 240 cm e Anca Munteau Rimic, Invention of Time Passed, 2017, performance, courtesy Galleria De’ Foscherari
Vajiko Chachkhiani, Father, 2017, chair, concrete, 80 x 120 x 70 cm, courtesy Galleria De’ Foscherari
Paolo Chiasera, Profanation: Ghenos, Eros, Thanatos, 2016, 350 x 240 cm e David Adamo, One Dozen Dunuts, 2017, bronze and acrylic, courtesy Galleria De’ Foscherari
Vajiko Chachkhiani, Father, 2017, performance, courtesy Galleria De’ Foscherari, foto di Alessandro Trapezio
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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