Nell’ambito della programmazione di progetti commissionati, la National Gallery of Canada ha chiesto a Rashid Johnson di creare un’opera per l’ingresso principale dell’edificio. L’opera realizzata, Capsule, è la più grande scultura/installazione a forma di ziggurat (un insieme di cubi aperti e profilati di nero) che Johnson abbia prodotto fino a oggi: all’interno della struttura minimalista corre un corridoio praticabile e questo corridoio può essere visto come un bozzolo o come un passage, cioè come galleria dentro la galleria (il museo) che ospita l’opera. Ma si può dire anche questo: la crociera della struttura è come una sorta di agorà o di luogo dove poter ospitare esibizioni dal vivo, in modo che un lavoro da inerte diventi relazionale, con la speranza che possa suscitare esperienze e risposte che possano essere insieme emotive, intellettuali e critiche, senza per questo dover scadere nel didattico o nel didascalico.
La struttura è riempita di piante, libri, sculture in fibra di vetro e burro di karitè, televisori (che trasmettono video prodotti da Johnson nel corso di quest’ultimo decennio) e luci di coltivazione. Funziona come una “massa cerebrale” che incorpora e connette fonti autobiografiche, intellettuali, musicali, storiche, artistiche e letterarie. La maggior parte delle piante è ospitata in vasi di ceramica costruiti a mano, realizzati e decorati dall’artista con immagini ricorrenti e presenti anche nei suoi dipinti. I libri impilati contengono argomenti che esplorano le tensioni e le esperienze relative a questioni di razza e di classe, come The Crisis of the Negro Intellectual di Harold W. Cruse.
L’idea di incorporare un elemento di vita vera (o di natura, come il caso delle piante) all’interno di un’opera d’arte (con tutte le responsabilità che ne conseguono per la gestione dell’opera) richiama alla memoria il lavoro di Giovanni Anselmo (il cespo d’insalata), di Jannis Kounellis (il pappagallo), di Mario Merz (gli ortaggi e le fascine di legno), come dire un percorso che dalla processualità forte e coinvolgente degli anni Sessanta ha continuato a svilupparsi fino a oggi.
Nato a Chicago nel 1977 (attualmente vive a New York), Rashid Johnson fa parte di un influente gruppo di artisti afro-americani che utilizza un’ampia gamma di mezzi espressivi – tra cui scultura, pittura, disegno, cinema e installazione – per esplorare non solo aspetti formali, ma anche di contenuto. Se fossimo in un’altra epoca si parlerebbe di arte impegnata o di denuncia. Però, in questo caso, i contenuti o le storie condivise si intrecciano con narrazioni personali e con le testimonianze anche di piccoli aneddoti, secondo una regola che anche il personale può essere politico, sempre secondo uno slogan di qualche decennio addietro oppure, per dirla in altro modo: la domanda personale può diventare, per un fine maieutico, una questione universale. In questa ottica, ogni materiale usato, pur portandosi appresso delle tracce del proprio vissuto, tra le mani dell’autore diventano oggetti di una narrazione amplificata: dal momento che vengono sottratti al loro uso originario, perdono la loro connotazione per divenire circuiti di interazione che producono informazioni integrative o segni di una memoria alternativa. Per dirla con le sue parole: “L’artista è un viaggiatore nel tempo” e il lavoro è “come un mezzo o un portale per riscrivere la storia in modo efficace, non come una revisione, ma come un lavoro di finzione”.
Dopo aver studiato nel dipartimento di fotografia dell’Art Institute di Chicago, la pratica di Johnson si è rapidamente ampliata, producendo una pratica multidisciplinare complessa che incorpora diversi materiali ricchi di simbolismo e di rimando a una volontà di affermazione dell’identità culturale, dell’autenticità etnica, dei problemi legati alla diaspora e all’integrazione, che ovviamente ha le sue radici in un passato segnato dal dolore e dalla sofferenza. Per esempio, l’uso di piante tropicali allude molto chiaramente a queste origini, così come l’uso del sapone nero africano non è certo un vezzo, ma una scelta ben motivata. Così, da queste associazioni, che rimandano da oggetto a oggetto, possiamo trovare una traccia sotterranea, talvolta anche mistica e occulta, che di primo acchito può anche sfuggire, ma che a un esame più attento non viene a mancare.
La sua straordinaria carriera inizia nel 2001, quando a soli ventuno anni è il più giovane artista ad essere invitato alla mostra “Freestyle” presso lo Studio Museum di Harlem a cura di Thelma Golden. Poi vanno ricordate le più significative mostre museali: Kunstmuseum Magdeburg (2008), Museum of Contemporary Art di Chicago (2012), Ballroom Marfa in Texas (2013), Kunsthalle Winterthur (2014), The Drawing Center a New York (2015), GAMeC di Bergamo (2016), Milwaukee Art Museum (2017), ICA, Richmond (2018), Museo Tamayo, Mexixo City (2019), fino all’installazione “Capsule” alla National Gallery of Canada, datata 2021 e curata da Josée Drouin-Brisebois, Senior Curator of Contemporary Art presso la National Gallery of Canada.
Bruno Purek
Info:
Rashid Johnson, Capsule
fino al 13 novembre 2022
National Gallery of Canada
380 Sussex Drive
Ottawa, On, Canada
info@gallery.ca
Rashid Johnson, Capsule, 2020–21, powder-coated steel, plants, ceramics, rugs, fiberglass, shea butter, books, video, monitors and grow lights. National Gallery of Canada, Ottawa, purchased 2021 © Rashid Johnson. Photo: NGC
Rashid Johnson, Capsule, 2020–21, powder-coated steel, plants, ceramics, rugs, fiberglass, shea butter, books, video, monitors and grow lights. National Gallery of Canada, Ottawa, purchased 2021 © Rashid Johnson. Photo: NGC
Rashid Johnson, Capsule, 2020–21, powder-coated steel, plants, ceramics, rugs, fiberglass, shea butter, books, video, monitors and grow lights. National Gallery of Canada, Ottawa, purchased 2021 © Rashid Johnson. Photo: NGC
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