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Quando la poesia ci (ri)guarda: 60 anni del Gruppo 70

«o la poesia, o l’arte in generale, trasforma profondamente i costumi, o è nulla»

Queste le parole del cofondatore del Gruppo 70, Lamberto Pignotti, in occasione della ricorrenza dei 60 anni dalla nascita del Gruppo, uno dei sodalizi artistici più interessanti sorti nel contesto delle Neoavanguardie e delle ricerche verbo-visive italiane che, «partendo dai rapporti fra parole e immagini, si espanse ad altri sensi, sensi spesso trascurati» (L. Pignotti). Per celebrare questa ricorrenza, la Galleria d’Arte Moderna di Roma ospita fino al 2 febbraio 2025 la mostra “La poesia ti guarda: omaggio al Gruppo 70 (1963-2023)”, curata da Daniela Vasta. Questa iniziativa fa parte di un ampio programma espositivo della Galleria, che da sempre si distingue per l’attenzione riservata alle Avanguardie e Neoavanguardie italiane del XX secolo. La mostra offre un affascinante viaggio attraverso le scelte estetiche e poetiche del Gruppo con particolare attenzione al periodo cruciale tra il 1963 e il 1968. In essa sono protagonisti i lavori di due dei suoi fondatori, Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti, insieme ad altri importanti esponenti come Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Luciano Ori, Roberto Malquori e Michele Perfetti. L’esposizione si distingue per la sua natura multimediale, riflettendo pienamente l’approccio sinestetico e multiforme degli artisti del Gruppo 70. Le opere visive sono affiancate da poesie sonore, cinepoesie, libri d’artista e una selezione di documenti che testimoniano non solo l’innovativa sperimentazione estetica, ma anche l’impegno politico e sociale del Gruppo. Questi artisti, infatti, si fecero promotori di una riflessione sul cambiamento tumultuoso che attraversava l’Italia in quegli anni. L’uso del collage e del fotomontaggio diventa un potente strumento per esplorare la velocità e il disordine dei cambiamenti culturali e sociali, sfidando la capacità del linguaggio tradizionale di rispondere a un mondo in continuo mutamento. Il collage, come gesto poietico (poiéo, fare), «combina parole, immagini e materie tratte dall’immaginario collettivo» con l’intento di recuperare frammenti di sensibilità umana che rischiano di essere alienati dal contesto tecnologico e sociale dominante. La poesia ti guarda «Non è una mostra d’arte di punta in cui come contorno vengano servite anche della poesia e della musica parimenti di punta. Si tratta, escludendo tanto la presunzione quanto la falsa modestia – di una proposta di manifestazione artistica sostanzialmente inedita, volta a rintracciare, verificare e proporre i possibili, latenti rapporti metodologico-operativi fra settori di produzione e fruizione estetica diversi» (L. Pignotti).

Eugenio Miccini, “Il cuore tornerà a battere”, 1963, collage su cartoncino, 50 x 70 cm, Prato, Collezione Carlo Palli, photo courtesy Galleria d’Arte Moderna, Roma

Riscoprire oggi la poesia visiva, come elemento centrale della stagione italiana delle neoavanguardie, non si limita a un omaggio celebrativo per i sessant’anni del Gruppo 70, ma diventa un’occasione per riflettere sull’appassionante viaggio della parola nell’arte. Fin dalle sue origini, la parola si è intrecciata con l’immagine, creando un dialogo complesso e fecondo, dando vita a forme espressive spericolate, capaci di scardinare convenzioni e rinnovare sia la pittura sia la scrittura. Per comprendere appieno le radici di quest’interazione, possiamo immaginare il processo creativo di un codice miniato medievale. Questo manufatto prezioso prendeva vita attraverso un’artigianalità complessa e collettiva: i pergamenari preparavano la superficie in pelle, i copisti trascrivevano il testo, i miniatori aggiungevano le decorazioni, trasformando il tutto in un’opera che combinava parola e immagine in un dialogo profondo. Il risultato era una fusione estetica e simbolica che andava oltre la mera decorazione. Questa stessa tensione tra parola e immagine si rifletteva nelle tecniche di poesia visiva moderne, come il collage e il décollage, in cui materiali tangibili come carta, stampe e foto si combinano con l’arte della scrittura. Come nelle botteghe medievali, gli artisti moderni trasformano questi elementi in opere che sovvertono il significato tradizionale del linguaggio, creando nuovi spazi interpretativi. La tradizione verbo-visiva non si esaurisce nei codici miniati. Essa trova espressione nei carmina figurata medievali, nei libri xilografici, nei calligrammi. Già durante il periodo ellenistico, poeti come Simia di Rodi, Teocrito e Dosiada creavano opere note come technopaegnia, dove la disposizione delle parole sulla pagina formava immagini simboliche. Questi esperimenti, continuati in epoca medievale e rinascimentale, dimostrano come la parola abbia sempre cercato di liberarsi dalla linearità per esplorare nuove possibilità visive e semantiche. Tra le prime esplorazioni moderne di questa connessione, si inseriscono le opere di Stéphane Mallarmé, in particolare Un coup de dés jamais n’abolira le hasard (1897). Le parole si distribuiscono sulla pagina in blocchi e gradini, creando effetti visivi che amplificano la drammaticità del componimento. Guillaume Apollinaire, analogamente, con i suoi calligrammes, come il celebre Il pleut (1918), utilizza la disposizione visiva delle parole per amplificare il significato del testo. Le parole si organizzano come gocce di pioggia, creando un’esperienza simultanea tra significato letterale e rappresentazione grafica.

2.Ketty La Rocca, “Appendice per una supplica”, 1971, Tela emulsionata, 87,5 x 125 cm, Prato, Collezione Carlo Palli

Ketty La Rocca, “Appendice per una supplica”, 1971, tela emulsionata, 87,5 x 125 cm, Prato, Collezione Carlo Palli, photo courtesy Galleria d’Arte Moderna, Roma

Il dialogo tra parola e immagine, nel Futurismo, raggiunge un livello di sperimentazione senza precedenti. Filippo Tommaso Marinetti rivoluziona il linguaggio poetico con il concetto di parole in libertà, superando le convenzioni della punteggiatura e della sintassi tradizionale. Nelle sue opere, la scrittura diventa un’esperienza visiva e sonora. Esempio emblematico è il poemetto Zang Tumb Tumb (1912-1914), ispirato all’assedio di Adrianopoli durante la Prima Guerra Balcanica, al quale Marinetti assistette personalmente come corrispondente per il giornale francese Gil Blas. Georges Braque sviluppa con i suoi papiers collés un linguaggio visivo che attinge a frammenti di carta stampata, come ritagli di giornale o etichette, per inserirli nelle composizioni pittoriche. Nel 1912 Pablo Picasso inaugura una nuova fase della storia dell’arte con la creazione di uno dei primi collage pittorici: Natura morta con sedia impagliata. Volendo evitare di scivolare nell’astrattismo puro, Picasso introduce dettagli che ancorano l’opera al mondo reale, come le tre lettere maiuscole JOU, che possono essere lette come abbreviazione di journal (giornale) o jouer (giocare), aggiungendo una dimensione ludica e narrativa, un invito per lo spettatore a partecipare attivamente all’interpretazione del dipinto. Tra le figure più significative del Dadaismo spicca Kurt Schwitters. Membro del gruppo dadaista di Hannover, sviluppa un linguaggio artistico unico e innovativo attraverso i suoi Merzbilder, opere nelle quale combina frammenti di testo e materiali di recupero in composizioni che trasformano la parola in un elemento plastico, visivo e materico. René Magritte trasforma la realtà quotidiana attraverso il filtro dell’assurdo e del meraviglioso. È significativo notare che, prima di affermarsi pienamente nel movimento surrealista, tra il 1922 e il 1926, Magritte lavora nel campo della pubblicità, progettando poster e carta da parati. René gioca con la parola come se fosse un oggetto, un paradosso visivo che mimetizza le parole nel contesto, creando l’illusione che esistano fisicamente. In L’art de la conversation (1950), le lettere si dissolvono nell’architettura, dando l’impressione che siano pietre reali, pur rimanendo un’idea materializzata in modo straniante. Magritte diventa giocoliere dell’inganno, imponendo all’osservatore di navigare tra ciò che è e ciò che non è. La serie Ceci n’est pas une pipe di Magritte rappresenta una delle riflessioni più profonde e provocatorie sull’arte e il linguaggio del XX secolo: l’immagine di una pipa, accompagnata dalla scritta che nega ciò che lo spettatore sta osservando, diventa un paradosso visivo e concettuale. Citando Foucault, nel suo saggio del 1968 intitolato proprio Ceci n’est pas une pipe, Magritte non si limita a giocare con il rapporto tra significante e significato, ma trasforma la pittura in un terreno filosofico, mettendo in crisi ogni certezza rappresentativa. In Escargot, femme, fleur, étoile (1934), le parole di Joan Miró non sono didascalie, ma entità vive, che seguono il ritmo di un universo pittorico in bilico tra poesia e gesto infantile, un alfabeto cosmico che invita alla lettura come a una passeggiata tra le stelle, Miroglifici intrisi di associazioni e allusioni.

Lucia Marcucci, “Sotto accusa”, 1966, collage su cartone telato, 60 x 50 cm, Prato, Collezione Carlo Palli, photo courtesy Galleria d’Arte Moderna, Roma

Il Lettrismo e il Nouveau Réalisme, proseguendo l’eredità delle avanguardie storiche, aprono la strada a un’interazione sempre più stretta tra linguaggi espressivi diversi, mentre il New Dada, la Pop Art e figure come Mimmo Rotella, Mario Schifano e, successivamente, Jean-Michel Basquiat, ampliano e diversificano questa ricerca. Per approdare ai nostri giorni, Anselm Kiefer nelle sue tele intreccia i versi di Paul Celan, poeta dell’indicibile, con materiali ruvidi e simbolismi potenti, dando forma a opere che affrontano traumi storici e spirituali: le immagini si fondono con il linguaggio in un dialogo struggente sulla memoria. La parola inserita nell’opera d’arte, come abbiamo visto, non è una novità esclusiva dell’età contemporanea, tuttavia, è solo a partire dalla seconda metà del Novecento che essa assume un ruolo centrale. Negli anni ’50 e ’60, la poesia concreta rivoluziona il linguaggio, trasformandolo in oggetto visivo e concentrandosi sulla sua struttura materiale. Pionieri come Eugen Gomringer e il Gruppo Noigandres (con Décio Pignatari, Haroldo e Augusto de Campos) esplorano la parola come forma autonoma, svincolata dal significato tradizionale, per rivelarne il potenziale estetico e spaziale. Ma è con il Gruppo 70 che questa ricerca arriva alle sue massime conseguenze. Fondendo avanguardia storica e cultura contemporanea, il collettivo italiano reinterpreta parola e immagine in chiave verbo-visiva, creando opere che superano la mera rappresentazione per interrogare criticamente la società. Lamberto Pignotti ironizza sui ruoli stereotipati della famiglia borghese; Lucia Marcucci ridicolizza miti machisti e feticci del benessere; Giuseppe Ori demistifica l’ossessione per la bellezza; Antonio Malquori smaschera la vacuità dei rotocalchi femminili; Michele Perfetti denuncia la mercificazione del corpo femminile; Ketty La Rocca indaga le ambiguità del linguaggio. La scrittura «compie un atto di insubordinazione nei confronti dell’immagine, nel senso che essa non si rassegna più a rimanere umilmente in disparte, come le figure dei committenti nelle antiche pale d’altare, ma pretende di occupare lo spazio dell’immagine e concorrere, a parità di diritti, alla messa a punto del messaggio.  Si verifica un doppio spostamento, del codice verbale verso il codice visivo e viceversa. Sia l’uno che l’altro abbandonano il loro territorio e si attestano in uno spazio diverso, quello di un inter-codice, risultante dalla contaminazione e dalla integrazione dei primi due» (F. Menna). Il clima culturale della Firenze degli anni Sessanta era un vibrante crogiolo di innovazione, che rendeva la città un epicentro dell’avanguardia internazionale. Qui prendeva forma l’Architettura Radicale, con collettivi visionari come Superstudio, Archizoom e Ufo, che sfidavano i paradigmi tradizionali del design e dell’urbanistica. Pietro Grossi gettava le basi della musica elettronica in Italia, attirando figure di spicco come John Cage, Luciano Berio, Cathy Berberian e Sylvano Bussotti, e consolidando Firenze come punto di riferimento per la sperimentazione sonora. Questo fermento creativo si innestava in un periodo di profonde trasformazioni. Gli anni Sessanta segnarono un momento di svolta per il Paese, sospeso tra tradizione e modernità. un’Italia ancora radicata nelle sue origini agricole si apriva all’industrializzazione. In questo contesto di rotture e trasformazioni, anche l’arte e la poesia iniziarono a interrogarsi sui linguaggi del presente. È proprio in questo clima di critica e rifiuto del sistema dominante che il Gruppo 70 si inserisce: operando prelievi dal mondo della comunicazione di massa, intendevano criticare e contestare il sistema stesso, i suoi riti e miti, tra cui quello del benessere. «Le classi dominanti impongono i nomi agli oggetti d’esperienza secondo l’interesse del dominio e costringono l’esperienza a regolarsi secondo le leggi dei nomi. Si stabilisce una corrispondenza o reciproca riflessione di nomi e oggetti: non solo i nomi sono falsi, ma è falsificata l’esperienza; i nomi sono incollati alle cose: l’oggetto diventa un riflesso del nome […] Lo stereotipo è un fatto politico, la figura principale dell’ideologia». (L. Pignotti)

Luciano Ori, “Il filo della bellezza”, 1963, collage su cartoncino, 49,8 x 69,7 cm, Prato, Collezione Carlo Palli, photo courtesy Galleria d’Arte Moderna, Roma

Per «giocare» al sistema e rovesciarlo, era necessario agire come ladri e falsari, sovvertendo le convenzioni e creando nuove forme di espressione. Nel 1996, quando venne pubblicata Gioventù Cannibale (un’antologia di racconti, scritti da vari autori, successivamente definiti I Cannibali), Daniele Luttazzi sottolineò come l’opera inizialmente fosse stata accusata di essere troppo distante dalla realtà dell’epoca. Tuttavia, l’antologia si rivelò sorprendentemente precognitiva, affrontando temi che, poco dopo, sarebbero divenuti protagonisti della cronaca italiana: «Dopo qualche mese, l’Italia conobbe i casi del mostro di Firenze, del serial killer ligure, di Erika e Omar, dei satanisti lombardi, eccetera. Gli artisti hanno le antenne e sentono in anticipo quello che sta per arrivare». Questa riflessione mette in luce come gli artisti avessero la capacità di anticipare tendenze e trasformazioni culturali che avrebbero definito la società nei decenni successivi. Similmente, il Gruppo 70, dotato di queste antenne, sembrava anticipare il 1968 e l’Autunno caldo del 1969. L’emigrazione interna, con milioni di persone che si spostavano dal Sud verso il Nord, e il risveglio del protagonismo operaio e studentesco, fecero esplodere una nuova ondata di mobilitazione politica e sociale. Le rivendicazioni per i diritti civili e il miglioramento delle condizioni di vita si intrecciavano con un paese che cercava di rinnovarsi in ogni sua dimensione.   Come osservò Adriano Spatola: «Il problema non è più soltanto quello di trasformare la poesia in qualcosa di nuovo rispetto alla poesia tradizionale, ma soprattutto quello di far sì che la poesia, attraverso questa trasformazione, si proponga come arte totale. […] Essa cerca oggi di farsi medium, di sfuggire a ogni limitazione, di inglobare teatro, fotografia, musica, pittura, arte tipografica, tecniche cinematografiche e ogni altro aspetto della cultura, in una aspirazione utopistica al ritorno alle origini». In quel periodo, la stampa aveva contribuito a una standardizzazione della comunicazione, creando una monotonia visiva e intellettuale che stava diventando sempre più insostenibile. In questo contesto di fatica nei confronti dei modelli consolidati, cominciava a emergere un’utopia culturale, volta a creare una nuova sintesi tra parola e immagine. L’obiettivo era quello di sfidare apertamente la Galassia Gutenberg che aveva cristallizzato il pensiero in strutture rigide e limitanti, alimentando così un crescente bisogno di linguaggi alternativi. Che cosa rappresenta il termine Galassia Gutenberg? Coniato da Marshall McLuhan nel suo celebre saggio La galassia Gutenberg: nascita dell’uomo tipografico (1962), il concetto analizza l’impatto della stampa a caratteri mobili sulla cultura e sulla coscienza umana, capace di rivoluzionare il modo di pensare e comunicare. Il mezzo è il messaggio, non più semplice strumento per veicolare contenuti, ma influenza e modella la realtà e la percezione umana stessa. La stampa ha avviato un processo capace di generare, tra gli altri, il nazionalismo, il razionalismo e la standardizzazione culturale con un conseguente senso di alienazione, poiché la comunicazione si è uniformata. Secondo McLuhan, «quando le parole vengono scritte esse diventano parte del mondo visivo» e, in questa transizione, perdono molte delle loro qualità originarie, vengono private del loro stadio magico, trasformate in elementi di un mondo dove l’esperienza è prima mediata e poi uniformata.

Roberto Malquori, “Stop”, 1964, collage e decollage su carta, 42 x 53 cm, Prato, Collezione Carlo Palli, photo courtesy Galleria d’Arte Moderna, Roma

Nel Fedro, Platone evoca il mito egiziano di Thamus e Theuth, dove Theuth, inventore dell’alfabeto, lodava la sua scoperta come un mezzo per rendere gli Egiziani più saggi e migliorare la loro memoria. Tuttavia, il re Thamus risponde: «O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. […] Esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitare la memoria perché, fidandosi dello scritto, richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di essi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei». Il principio del vedere per credere occupa da sempre un ruolo centrale nella cultura visiva occidentale e trova una rappresentazione emblematica nel Vangelo di Giovanni (Gv 20, 24-29). In questo episodio, l’apostolo Tommaso, di fronte alla testimonianza degli altri discepoli sulla resurrezione di Cristo, esprime il bisogno di una conferma tangibile: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Questa richiesta riflette la naturale inclinazione umana a fondare la fede sull’evidenza sensibile. Gesù, pur acconsentendo al desiderio di Dìdimo, lo ammonisce: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». In queste poche ma eloquenti parole si condensa l’invito a trascendere la dipendenza dall’esperienza visiva, riconoscendo il valore di una fiducia che supera i limiti della percezione immediata. Al contrario, nelle comunità rurali africane, l’udito e la comunicazione orale sono essenziali nella percezione del mondo. John Wilson, nel suo studio sui processi percettivi, descrive come, durante un esperimento educativo in un villaggio africano, gli spettatori pre-letterari percepirono un filmato in modo inaspettato, focalizzandosi su dettagli marginali come un pollo nell’angolo dell’inquadratura, trascurando il messaggio totale del video. Questo approccio deriva dalla mancanza di un’abitudine visiva acquisita, che rende necessario un apprendimento/assorbimento per comprendere un’immagine nella sua interezza. Wilson conclude che, per i non alfabetizzati, l’interazione con le immagini è empatica e immersiva, simile all’esperienza tattile, mentre negli alfabetizzati prevale una visione distaccata e analitica.

Michele Perfetti, “L’ingranaggio”, 1966, collage su cartoncino, 23,5 x 15,5 cm, Prato, Collezione Carlo Palli, photo courtesy Galleria d’Arte Moderna, Roma

Nel 1962, Lamberto Pignotti, fondatore del Gruppo 70, rifletteva sull’impatto della Galassia Gutenberg sulla società, ispirandosi alle teorie di McLuhan e cercando di superare le barriere dei linguaggi tradizionali: «Non si tratta di fare quattro passi fuori dalla torre d’avorio per osservare con l’occhio in vacanza del turista il colore locale del mondo; si tratta invece di abitare il mondo, si tratta di ascoltare e di farsi ascoltare, di capire e di farsi capire». Nello stesso anno, teorizzava la poesia tecnologica, che avrebbe dovuto attingere ai linguaggi della contemporaneità, come quello giornalistico, scientifico, pubblicitario e altri. Non si trattava di una semplice addizione estetica, ma di un’operazione che rispondeva al bombardamento di parole e immagini caratteristico del boom economico in Italia, che introduceva nuovi miti e nuovi riti nella vita quotidiana. Pignotti avrebbe parlato in seguito di pubbli-città per descrivere la dilagante invasione della pubblicità nello spazio urbano. Né apocalittica né tantomeno integrata, la poesia visiva raccoglieva le novità in circolazione e le inglobava nel territorio delle arti visive, invitando gli osservatori a «uscire dalla fruizione passiva e a guardare-leggere criticamente tutti i messaggi verbo visuali»: una conquista, quella dello «sguardo vigile e smaliziato». Avere controllo sui codici era una lezione di democrazia, di libertà emotiva, di cittadinanza attiva e consapevole. Nel convegno fondativo del Gruppo 70 (Arte e Comunicazione, 4-26 maggio 1963), i poeti Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti, i pittori Antonio Bueno e Alberto Moretti, i musicisti Sylvano Bussotti e Giuseppe Chiari, i critici Luciano Anceschi, Eugenio Battisti, Gillo Dorfles e Gianni Scalia, e i linguisti Umberto Eco e Aldo Rossi analizzavano l’arte come fenomeno della comunicazione.  I poeti fondatori sono presto affiancati da Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Luciano Ori, mentre si instaurano relazioni e interscambi con il Gruppo 63, Fluxus e le ricerche verbo-visuali degli altri centri della penisola con affiliazioni più o meno transitorie. La domanda cruciale su questa nuova questione della lingua era: Quale atteggiamento mentale adottare di fronte all’ascesa della lingua tecnologica e industriale? La poesia visiva, secondo Pignotti, «non è né una pittura con le parole né una poesia con le figure. In altri termini, le parole non devono fare da commento a delle autosufficienti immagini visive, né queste ultime devono risultare l’illustrazione di un testo che basta a sé stesso. La poesia visiva, per essere tale, pretende un effettivo rapporto, una vera interazione, fra parole e immagini visive in un unico contesto […] e non la loro semplice convivenza». A partire dal 1963, il Gruppo 70 inizia a mettere in scena happening itineranti, caratterizzati dall’interazione tra il pubblico, i poeti e i musicisti. La poesia visiva abbandonava le pagine stampate per vivere su superfici inaspettate, come muri e cartelloni, in un tentativo di superare l’arte da venerare a distanza, per favorire l’interazione diretta con il pubblico. Gli spazi cittadini si trasformarono in palcoscenici, dove le poesie venivano recitate in piazze e contesti inusuali. Un momento memorabile fu la performance poetica del Gruppo 70 insieme a Ezra Pound, che partecipò a una di queste agorà poetiche.

Ketty La Rocca, “Segnaletiche”, 1968, smalto su tavola, 60 x 109 cm, Prato, Collezione Carlo Palli, photo courtesy Galleria d’Arte Moderna, Roma

L’innovazione della poesia visiva trova piena espressione nel secondo convegno del Gruppo 70, Arte e tecnologia, tenutosi a Firenze dal 27 al 29 giugno 1964. In questa occasione, il carattere performativo dell’arte assume un ruolo centrale, come dimostrato dall’happening Poesie e no, rappresentato per la prima volta il 4 aprile 1964 presso il Gabinetto Scientifico Letterario G. P. Vieusseux. Questo spirito innovativo dà vita a una serie di iniziative che sfidano le convenzioni tradizionali dell’arte e della comunicazione. Tra queste, Volantini (1967) di Ketty La Rocca, in cui poesie in formato volantino vengono distribuite direttamente per strada, e Parole sui muri (1967), che porta la poesia negli spazi urbani. La provocazione di Pignotti risuona ancora più forte quando si chiede se non sia «giunta dunque l’ora di fare ascoltare poesia dagli altoparlanti degli stadi fra i due tempi di una partita di calcio, o di allestire mostre di pittura in giganteschi pannelli lungo le autostrade». Il terzo convegno del Gruppo 70, organizzato tra maggio e luglio 1965, si sviluppa come un festival itinerante in diversi luoghi di Firenze. Qui, l’ironia e il dissenso si manifestano anche attraverso il lancio del Premio Fata, una parodia dissacrante del più prestigioso Premio Strega, il cui obiettivo dichiarato era premiare il libro peggiore dell’anno. «Con i miei compagni del Gruppo 70, parlavo di un ribaltamento dei segni, di messaggi ‘respinti al mittente’, di contropubblicità, dell’atto di scompigliare, ingarbugliare – e possibilmente strappare – il filo del discorso imposto dal sistema, di dissacrazione delle icone della società di massa» (L. Pignotti). Con un approccio dissacrante e radicale, il Gruppo 70 si poneva come un’onda d’urto contro le logiche di consumo e il linguaggio standardizzato dei mezzi di comunicazione di massa, reinterpretando segni e significati per ridare loro nuova vita critica e poetica. In una delle prime inquadrature di La Chinoise (1967), Jean-Luc Godard mostra un salotto moderno, simbolo del benessere e del consumismo, su cui appare il testo Il faut confronter les idées vagues avec des images claires. Con questa scelta, Godard adotta un approccio che intreccia codici visivi provenienti dai mass media, dalla pubblicità e dalla cultura di consumo, creando un collage che riflette la cultura di massa. Questo metodo, che ricorda il riuso tipico della poesia visiva, ha l’intento di stimolare lo spettatore a interrogarsi sulle strutture di potere e sulle narrazioni imposte dalla cultura dominante, mettendo in discussione le convenzioni e invitando a una riflessione critica sulla società e le sue ideologie. Questa ricerca si sviluppa ulteriormente a metà degli anni Settanta, quando Godard, insieme ad Anne-Marie Miéville, fonda la casa di produzione indipendente Sonimage, che diventa il laboratorio per una serie di opere sperimentali come Six fois deux / Sur et sous la communication (1976) e France / tour / détour / deux / enfants (1978). In queste opere, Godard esplora la relazione tra immagini, significati e la società contemporanea, continuando a mescolare e sovrapporre materiali visivi per offrire una lettura critica della realtà. «Una specie di poesia-spettacolo che contiene, appunto, poesie e altro materiale di provenienza extra-letteraria: notizie giornalistiche, poesie visive, canzoni di largo consumo, azioni quotidiane, gesti comuni, partiture registrate su nastro, suoni concreti, ecc. […] Tutti questi materiali […] sono montati mediante varie tecniche: sovrapposizioni, dissolvenze, sequenze, riprese. Ne risulta una costante simultaneità di azione, tale da sollecitare lo spettatore a più livelli, disponendolo ad assorbire e a reagire con omologa simultaneità di registro sensibili e psicologici» (L. Pignotti).

Lamberto Pignotti, “Grave comunicato di stato è arrivato con l’FBI”, 1967-68, 40 x 25 cm, Roma, Galleria d’Arte Moderna, inv. AM 5432, photo courtesy Galleria d’Arte Moderna, Roma

L’arte doveva rubare a piene mani dalla bocca del popolo, utilizzando fonti popolari come proverbi, frasi fatte, gergo cinematografico, giornali sportivi e titoli pubblicitari. Le terminologie venivano quindi messe in relazione con ambiti elevati come scienza, poesia e filosofia. In questo modo, il materiale preso in prestito non veniva solo trasformato, ma reinterpretato esteticamente, cambiandone radicalmente il significato originario e rispondendo a un’idea di arte democratica e militante. In questa visione, l’artista non è più subordinato alla tecnica di Benjaminiana memoria, né è un semplice strumento: diventa, al contrario, una forza capace di trasformare e rinnovare il linguaggio stesso, ridefinendolo. Il processo di ri-creazione nel Gruppo 70 si basava principalmente sul collage largo, che combinava materiali iconici e verbali per creare nuovi significati. Questo processo si articolava in due fasi principali: il découpage, in cui venivano selezionati elementi dalla cultura popolare e di consumo, e l’agencement, il montaggio creativo che riorganizzava questi frammenti in un nuovo contesto. Il montaggio seguiva sei regole semantiche: Calco, Trascrizione, Contaminazione, Paradosso, Ripetizione, e Concentrazione. Il fotomontaggio divenne una tecnica fondamentale, integrando fotografie e parole per produrre opere che sfidavano la realtà: Temi d’attualità e personaggi pubblici, come il disastro di Marcinelle, l’alluvione di Firenze del 1966 e la guerra in Vietnam, venivano trasformati in simboli universali, non solo per commentare il presente ma anche per trascenderlo. Le immagini di celebrità e icone della cultura popolare, come quelle di Luciano Ori e Monica Vitti, venivano usate per sfidare il culto della fama e il consumismo, in parallelo con le esperienze artistiche internazionali come il Nouveau Réalisme, il New Dada e la Pop Art americana. Il riuso creativo nelle opere del Gruppo 70 può essere visto come una pratica simile a quella dell’Arco di Costantino, un monumento che, pur celebrando la vittoria dell’imperatore contro Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio nel 312 d.C., attingeva da materiali precedenti, adattando rilievi e decorazioni di altri monumenti per attribuire loro un nuovo significato storico e simbolico. Analogamente, i membri del Gruppo 70 riutilizzavano immagini della cultura di massa, come pubblicità e slogan, per reintrodurle in un contesto diverso, conferendo loro un nuovo valore critico e artistico: il riuso diventava un atto di appropriazione creativa, trasformando elementi della quotidianità consumistica in potenti strumenti di riflessione sociale e politica. Adottando un atteggiamento guerrigliero, eversivo e antiborghese, gli artisti del Gruppo 70 hanno tradotto le tensioni politiche e sociali degli anni ‘60 in un linguaggio visivo radicale. Utilizzando gli stessi strumenti visivi e linguistici dei mezzi di comunicazione che criticavano, il Gruppo ha messo in atto una forma di subversione, smascherando e sovvertendo i miti e le convenzioni imposte dalla cultura dominante, distorcendo la percezione della quotidianità e rivelando significati nascosti nei dettagli più insignificanti della vita. Quello che sembrava una decorazione, un messaggio commerciale o un’informazione si trasformava in una potente forza simbolica, critica e artistica.

Lamberto Pignotti, “Vie nuove”, 1965-66, 25 x 40 cm, collage, Roma, Galleria d’Arte Moderna inv. AM 5430, photo courtesy Galleria d’Arte Moderna, Roma

In questo contesto, il richiamo alla realtà virtuale, alla realtà aumentata e all’intelligenza artificiale come nuovi territori di guerriglia appare evidente. Oggi, l’arte visiva e il linguaggio sono più fluidi che mai, mescolati dalle nuove tecnologie, e la sfida rimane quella di creare nuove modalità di lettura e interazione con il mondo. La poesia visiva ha messo in luce una dimensione nascosta sotto la superficie della civiltà dei segni, dominata da immagini e parole che generano stereotipi. Essa si inserisce nei mass-media come un cavallo di Troia, un veicolo sovversivo che agisce dietro le linee nemiche: «colpisce alle spalle, è una quinta colonna nelle file nemiche dei mass-media; potremmo dire, per assurdo, che è il più pericoloso dei mass-media». Come sottolineato da Eugenio Miccini, «mentre le comunicazioni di massa tendono a trasformare le figure retoriche in clichés e l’argomentazione in emblematica dai significati bloccati con mezzi destoricizzanti, disideologizzanti, e per fini di asservimento, di sfruttamento, di dominio, la poesia visiva […] cerca (come un ladro gentiluomo) di rubare ciò che è stato rubato: i rapporti fra le cose e le parole, fra i significanti e i significati: i segni insomma». La poesia visiva ci esorta a guardare il mondo con occhi diversi, o meglio, con occhi primitivi, penetrando all’interno della nostra caverna, antica e sacra dimora dove le pitture preistoriche dotate di energie ancestrali venivano utilizzate per celebrare atti simbolici di grande valore spirituale. Chiunque abbia esplorato una grotta conosce la sensazione di perdersi in un labirinto di apparente oscurità. In tale contesto, l’introduzione di una luce artificiale altererebbe la percezione di questi luoghi sacri, distorcendo la loro natura profonda. La luce elettrica impedirebbe di percepire la vera essenza di quei luoghi, nascondendo la potenza originaria dei colori e delle pitture che ne adornavano le pareti. Allo stesso modo, la poesia visiva ci sprona a non perdere la capacità di mantenere una purezza visiva che ci permetta di cogliere l’autenticità nascosta dietro la superficie, invitandoci a sostituire la luce artificiale del raziocinio con l’esperienza visiva autentica. Questo ci consente di mantenere il nostro spirito pronto a percepire ogni dettaglio, come hanno fatto gli indigeni di Wilson. È come un ritorno all’Africa dentro di noi, liberandoci, come sosteneva Blake dall’unica visione e dal sonno di Newton. «Lo so che il pianeta non è eterno. Ma questi cinque milioni di anni che gli restano da vivere saranno i poeti e gli artisti a progettarli, a migliorarne l’esistenza operando sulla coscienza degli uomini, sulla critica dei loro sistemi di persuasione e decisione, sulle comunicazioni sociali, insomma sulla cultura». (E. Miccini)

Maria Caruso

Info:

“La poesia ti guarda”. Omaggio al Gruppo 70 (1963-2023)
01/12/2023 – 02/02/2025
Galleria d’Arte Moderna
Via Francesco Crispi 24 – Roma
https://www.galleriaartemodernaroma.it/it/mostra-evento/la-poesia-ti-guarda-omaggio-al-gruppo-70

Bibliografia:

Daniela Vasta, La poesia ti guarda. Omaggio al gruppo 70 (1963-2023). Catalogo della mostra (Roma, 1° dicembre 2023–5 maggio 2024). Ediz. a colori
Marshall McLuhan La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, Armando editore (1° gennaio 1976)
Un viaggio nelle capitali attraverso la poesia del passato e le voci del presente, con David Riondino e Davide Rondoni. RaiPlay Sound, Capitale poesia, Puntata 2: Firenze www.raiplaysound.it
Musei in Comune Roma, La poesia ti guarda, Omaggio al gruppo 70 Podcast:  www.youtu.be.com
Intervista Lamberto Pignotti e la Poesia Visiva: www.youtu.be.com


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