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Quattro idee: Øystein Aasan, Jonathan Monk, Peter Halley e Maurizio Nannucci alla galleria Enrico Astuni

La mostra “Quattro idee” curata da Lorenzo Bruni alla galleria Enrico Astuni mette a confronto i lavori di Øystein Aasan  (1977,  Kristiansand,  Norvegia; vive e lavora a Berlino), Peter Halley (1953, New York; vive e lavora a New York), Jonathan Monk (1969,  Leicester,  UK;  vive  e  lavora  a  Berlino)  e  Maurizio  Nannucci  (1939,  Firenze,  dove  vive  e lavora), autori accomunati dall’interesse per il colore interpretato come  vibrazione  ed  espansione  percettiva e da un’idea  di  paesaggio  inteso come  spazio  fisico da  esperire.

La pratica di Øystein Aasan esplora l’eredità del Modernismo nella contemporaneità e le connessioni tra architettura, ideologia e cronaca per affrontare il tema della memoria e della storicizzazione delle varie modalità di comprensione dell’immagine da parte dello spettatore. Le sue opere, realizzate utilizzando libri, collage, scultura e pittura, funzionano come dispositivi di visualizzazione che escludono ogni lettura narrativa o sequenziale e nascono dalla combinazione di dettagli prelevati da differenti contesti culturali che evocano messaggi apparentemente eterogenei o contraddittori. Emblematica del suo approccio è la grande installazione presente in mostra composta da opere della serie Lost (2019) e Once removed (2020) collocate su mensole applicate a una parete color porpora. Le tonalità, i materiali e il design del dispositivo-espositore richiamano alla mente il purismo di Le Corbusier e Pierre Jeanneret (di cui a Bologna si può apprezzare appieno la filosofia progettuale nella ricostruzione del padiglione dell’Esprit Nouveau realizzata nel 1977 come fedele copia dell’omonimo edificio espositivo temporaneo progettato dai due architetti in occasione dell’Exposition International des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi del 1925). L’impressione di ordine e sistematizzazione che si riceve a prima vista è immediatamente contraddetta dalla disposizione mobile e centrifuga delle opere, ciascuna delle quali, richiedendo una specifica distanza e un differente punto di vista per essere indagata, istiga l’osservatore ad avvicinarsi, abbassarsi o a prendere in mano gli oggetti per esaminarli meglio. Nel suo insieme l’installazione potrebbe essere definita come un muro di appunti in cui riecheggia il ricordo delle lavagne degli storici dell’arte del secolo scorso, la più famosa delle quali è l’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg, portato avanti negli anni Venti del Novecento e lasciato incompiuto, attraverso il quale lo studioso tedesco confrontava immagini provenienti da epoche e contesti diversi nell’intento di individuare forme e temi ricorrenti nel tempo. Di Warburg Øystein Aasan recepisce la processualità fondata su un’idea di archivio mutevole e soggetto al passare del tempo, ma la sua indagine si concentra su immagini di opere d’arte perse o irrimediabilmente danneggiate durante bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, con l’intento di creare una sorta di museo simultaneo che tramandi la testimonianza di un passato rimosso e di un futuro mai esistito. I suggestivi dettagli di opere fotografate in bianco e nero che popolano il display espositivo, protette e ravvivate dall’artista con schermi di cera trasparente, un materiale tradizionalmente connesso alle pratiche di restauro, vogliono innescare un processo attivo di percezione della memoria e di riappropriazione dell’identità suggerendo un intreccio di narrazioni e di nuove possibilità relazionali.

Peter Halley, i cui scritti negli anni ’80 divennero la base per il Neo-Geometric Conceptualism (noto anche come Neo-Geo), il ramo del Neo-Concettualismo associato al lavoro di Ashley Bickerton e Jeff Koons oltre a quello dello stesso Halley, è celebre per aver ibridato il linguaggio dell’astrazione geometrica con suggestioni dell’energetico spazio urbano newyorkese che esplodono nell’uso iconico di vernici fluorescenti. Da metà degli anni ’90, l’artista realizza installazioni ambientali site-specific che riuniscono una vasta gamma di immagini e mezzi, inclusi dipinti, diagrammi di flusso a parete e stampe di carta da parati generate digitalmente. La qualità tridimensionale, tattile e architettonica dei suoi lavori (in cui le superfici non sono piatte, ma lavorate con chiari riferimenti ai moduli e alle decorazioni dell’ambiente urbano) e i titoli che spesso rimandano all’idea di cella, condotto e griglia fanno comprendere come la sua riconoscibilissima cifra stilistica non sia solamente portatrice di valori formali e teorici come nell’astrattismo classico, ma abbia origine in una riflessione critica sulle strutture implicite nel paesaggio postmoderno e sul loro significato culturale. La ricerca di Peter Halley si inserisce pienamente nel postmoderno per l’enfasi sul concetto di simulazione che sfocia quasi in una parodia del potere comunicativo del linguaggio che, proprio quando mente e finge, riesce a rivelare una verità più stringente di qualsiasi esplicitazione. Se all’inizio degli anni ’90 le celle e i grattacieli di Halley gettavano ombre colorate sul processo di spersonalizzazione che agli albori dell’era globale normalizzava il sacrificio della soggettività a favore del risultato inteso come valore assoluto, il fatto che a distanza di trent’anni lo stesso codice espressivo appaia straordinariamente attuale nonostante sia cambiata la cornice di riferimento, dimostra come più o meno consapevolmente l’artista avesse già allora intuito la direzione del cambiamento a venire. L’attitudine a visualizzare il mondo attraverso linee, connessioni e codici e l’impeccabilità formale e cromatica dei suoi dipinti (sempre più orientati verso la dimensione scultorea) possono essere lette oggi come una premonizione della smaterializzazione digitale e delle distopie della società del controllo a distanza. Le celle e i cunicoli codificati da Halley trovano infatti una altrettanto stringente corrispondenza con le invisibili strutture di trasmissione e archiviazione su cui si regge la società dell’iper comunicazione, rivelando come la sua attenzione alla realtà non sia solo formale, ma sia la diretta conseguenza della sua lucida precisione teorica nei confronti del mondo che cambia.

Jonathan Monk riflette sull’eredità degli anni ’60 con l’intento di indagare ciò che differenzia un oggetto contestualizzabile nella sfera del quotidiano da un’opera d’arte e viceversa. L’artista riproduce, rifonde e riesamina le opere fondamentali dell’arte Concettuale e Minimale con un approccio ingegnoso e irriverente che, demistificando il processo creativo, riflette sulla tendenza dell’arte contemporanea a divorare i propri riferimenti, rendendo allo stesso tempo omaggio a figure come Sol LeWitt, Ed Ruscha, Bruce Nauman e Lawrence Weiner. L’estrema semplicità del suo linguaggio nasce quindi come raffinata ricerca di sintesi, mentre l’estetica potente e immediata dei suoi lavori nasconde un’ampia complessità di riferimenti che riesce a trovare uno spazio autonomo tra i grandi del ‘900 incuneandovisi con lucidità incredibile attraverso interventi minimali ma perfettamente calibrati. Si potrebbe dire che l’artista propone all’osservatore un’esperienza di “déjà-vù con slittamenti” che, contrariamente alla pratica della citazione che si basa su prelievi di dettagli o di stile, è finalizzata a riattivare i processi di altri artisti per verificare quali delle intuizioni prodotte dalle grandi idee collettive del passato possano ancora incidere sulla cultura visiva contemporanea. Interessato soprattutto alle pratiche concettuali degli anni ’60, ne recepisce il rigore intellettuale ma non le componenti ideologiche, puntualmente neutralizzate dalla leggerezza del suo senso ludico e dalla propensione a riscaldare l’astrazione concettuale con riferimenti alla sua esperienza personale. queste caratteristiche si leggono molto chiaramente nell’installazione Untitled (Oranges for JB) I-XII, realizzata appositamente per la mostra e composta da dodici stampe digitali su cui compare la stessa arancia su sfondo bianco rielaborata in diverse cromie, nessuna delle quali corrisponde al colore del frutto reale fotografato, sotto al quale compare sempre la scritta ingannevolmente tautologica “ORANGE”. In questo caso l’artista fa collidere un’ostentata piacevolezza estetica, che non si può fare a meno di leggere come un aggiornamento dell’estetica Pop alla luce dei nuovi stereotipi digitali, le speculazioni sul potere connotativo del linguaggio di Joseph Kosuth, arricchite dall’ambiguità del termine che si riferisce con implicazioni differenti sia al frutto e sia al suo colore naturale, e una disposizione ordinata di elementi simili che richiama la ripetizione minimalista senza scadere in sterili automatismi grazie all’uso sensuale e pittorico delle relazioni cromatiche tra i moduli.

Maurizio Nannucci, da sempre interessato al rapporto opera-architettura-paesaggio urbano, intende l’arte come un processo mentale applicabile anche alla produzione di massa in cui l’oggetto artistico perde la propria unicità, ma guadagna presenza e nuova libertà. Autore di una produzione eclettica e variegata, è conosciuto soprattutto per il suo lavoro sul linguaggio e per l’uso del neon, medium utilizzato dalle attività commerciali per segnalare la loro presenza nello spazio urbano e che lui dagli anni ’60 impiega per riflettere sul ruolo dell’arte in relazione allo spazio pubblico. Artista concettuale, che esordisce nell’alveo della poesia concreta e della musica elettronica, mette sempre al centro del suo lavoro un’idea di processualità mai distaccata o freddamente razionalizzante, che riesce a far convivere senza incongruenze con un approccio fisico capace di restituire emozioni nell’abbandono al fascino coinvolgente del colore. Nelle sue installazioni la luce e la parola generano spazi completamente inventati che trasformano la struttura in cui ogni opera si colloca dando origine ad ambienti-esperienza che attivano nell’osservatore un rapporto di posizionamento fisico e non solo concettuale nei confronti dell’architettura e dello spazio. Esemplare di questi aspetti è il neon Idea esposto in mostra, in cui le lettere che compongono il titolo, realizzate ciascuna in un diverso colore, si sovrappongono producendo un amalgama di segni ed emissioni luminose. Attraverso un’attenta calibrazione delle componenti razionali ed emotive l’artista riesce a far convivere diverse modalità della parola traducendola in un’esperienza di carattere pittorico in cui la scritta assume valenza di segno e di corpo prima di identificarsi con il suo significato (identico in italiano e in inglese).

Info:

QUATTRO IDEE. Øystein Aasan, Peter Halley, Jonathan Monk, Maurizio Nannucci
06.03.2021 – 05.06.2021
a cura di Lorenzo Bruni
Galleria Enrico Astuni Bologna
Via Iacopo Barozzi, 3 Bologna
www.galleriaastuni.net

Øystein Aasan, installazione composta da opere della serie Lost, 2019 e Once removed, 2020. Courtesy Galleria Enrico Astuni

Øystein Aasan, Untitled (Proliferation series), 2008. Courtesy Galleria Enrico Astuni

Peter Halley, Senza titolo, 2015, acrilico e roll-a-tex su tela. Varese, collezione privata

Jonathan Monk, Untitled (Orange for JB – Blue Orange), 2020. Courtesy Galleria Enrico Astuni

Maurizio Nanucci, Idea, 1992, neon in vetro di Murano verde, rosso, giallo e blu. Courtesy l’Artista e Galleria Enrico Astuni

Cover image: Jonathan Monk, Listen For Yourself, 1999. Courtesy Galleria Enrico Astuni


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