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Raffaello in streaming per consumatori culturali: una riflessione sui contenuti artistici virtuali

È ormai una tra le innumerevoli non domeniche da coronavirus quando B, studentessa infervorata di quelle che assaporano ancora il significato della parola ‘idealismo’, riceve una telefonata da R, suo vecchio professore di Estetica, maestro ma ormai amico grazie ai benefici del naturale trascorrere del tempo. “Come stai?” B vorrebbe rispondere “male” ma improvvisamente un sopito senso di moralità la coglie e liberatasi da ogni soggettività: “Mah… Come tutti, bene…” Sforzi inutili, di nuovo una risposta inadeguata alla domanda, pensa. “Ma stai ancora leggendo quel mattone?” “Sì, perché?” –  “Ma a che pagina sei?” – “A duecentotrenta” – “…duecentotrenta? Ma leggi solo quello?”, la conversazione su libri e rispettivi quantitativi di pagine va avanti ancora per poco: “È uscito l’ultimo articolo di A, l’hai letto?” (A è un autorevolissimo filosofo), chiede B a R. Sono fuochi e fiamme tra i due finché il match si chiude con: “C’è poco da fare i filosofi adesso”… Nessuna replica. B si scopre sorprendentemente d’accordo con la conclusione gelata di R. Il sentimento idealista e appassionato ha lasciato naturalmente il posto a uno strano senso di cautela…

Davanti alla gravità della situazione che l’andamento della storia ci sta ponendo davanti agli occhi, una sensazione di estrema cautela ci relaziona a tematiche altre da quelle che ogni giorno ci raggiungono più o meno violentemente attraverso tutti i media. L’inevitabile rimonta del valore di ‘vita’ si staglia prepotentemente contro la percezione di un terrore invadente, conseguenza della possibilità di una morte prevedibile, o del singolo, di noi stessi, o dell’altro, la collettività. Tuttavia le “tematiche altre” crescono rigogliosamente, secondo natura e con fisiologia.

Tra queste, quella che interessa a noi, è ovviamente l’arte. Ammesso che al tempo del primo decreto legge coronavirus (4 marzo) c’era ancora chi, ingiustificatamente speranzoso e orgogliosamente ottimista, continuava la propria vita di assidue frequentazioni artistiche dai più semplici e personali aperitivi ai più ufficiali opening serali (aperitivi prolungati anche quelli, seppur dalla parvenza estetizzante), dopo il terzo e decisivo decreto del 9 marzo, un fenomeno è venuto alla ribalta.

Serie innumerevoli di contenuti artistici virtuali hanno fatto la loro comparsa su tutti i social, i live streaming hanno sostituito in poco tempo e con facilità le vere e proprie inaugurazioni, le “passeggiate virtuali” sono diventate possibili in tutti i maggiori musei italiani, è perfino possibile visitare la tanto attesa mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale, ci dicono.

Dalle piccole iniziative espositive di privati infatti (gallerie, artisti singoli), il boom è arrivato fino al MiBact, ufficializzandosi come un vero e proprio episodio di massa, dando avvio a una sorta di atteggiamento culturale bulimico collettivo che costringe i più interessati a rimanere connessi e aggiornati rispetto a ogni nuovo streaming artistico-culturale, convincendoci che così, anche isolati in venti o cento metri quadri che siano, si può continuare a “stare sul pezzo”, informati, ingenuamente attivi. Quello che è successo è che in quattro e quattr’otto l’opera d’arte è stata sostituita dalla sua comparsa. Il bisogno di immagine è diventato impellente, necessario per il proseguimento della narrazione che più o meno lentamente prosegue nel “mondo dell’arte”.

Lo stuntman ha preso il posto dell’attore protagonista. Forse era scontato, forse era naturale o semplicemente programmato nel corso delle cose, chiaro. Fatto sta che la riflessione a proposito nasce quasi doverosamente e ci pone come mai prima, di fronte alla lucida consapevolezza della perdita dell’esperienza estetica. I più ottimisti, amici della social-genesi parlerebbero giustamente non di una perdita ma di un mutamento inevitabile. Ma la constatazione rimane, e se prima del coronavirus c’era ancora chi fra gli adepti/assidui frequentatori/amatori mondani della società dell’arte si illudeva dell’esistenza di una fragile rimanenza idealistica dell’esperienza estetica resa possibile dall’opera – qualcosa da preservare nell’istantaneità-, allo stato attuale possiamo appurare la sua più evidente fine.

La pandemia ci lascia ancor più inermi davanti a uno status quo che ci denuda di ogni romanticismo e che i più nostalgici facevano forse ancora fatica a riconoscere come tale. Quel ‘resto’ sovrasensibile che forse ancora con fiducia il contatto vivo con l’opera ci regalava, va a farsi benedire e a sostituirlo compare un desiderio famelico di godimento virtuale, una soddisfazione primaria e facile che ci illude di poter fare esperienza dell’opera ovunque, in qualsiasi momento, in qualsiasi modo purché a persistere sia l’immagine, necessaria a una fruizione che diventa onnipotente. L’immagine prende il posto dell’opera per soddisfare il più avido, a tutti gli effetti, tra i nostri bisogni contemporanei.

Ma la stasi che si sta violentemente imponendo in ognuno dei settori della vita che ci riguarda potrebbe forse, nel campo dell’arte, divenire una fase preziosa. Riconosciamo a noi stessi che il beneficio che traiamo dalla fruizione ingorda dell’immagine “artistica” soddisfa la fame di informazione culturale che coadiuva ormai da anni tutte le energie dei media, tra cui ci sono anche le “riviste d’arte”, per portare avanti il susseguirsi spasmodico di eventi e accadimenti che ci illudono di una realtà culturalmente appassionata ma sterile, improduttiva di entusiasmi a lungo termine, generatrice di fuochi fatui.

Tuttavia, l’illusione di essere improvvisamente tutti sintonizzati con il sistema culturale del nostro paese, ci fa credere che lo sosteniamo e lo promuoviamo con i click giornalieri: è rassicurante. Continuiamo a dirci che ai tempi del coronavirus abbiamo riscoperto la lettura, il cinema d’autore e i musei italiani se questo ci difende psicologicamente da quello che sta accadendo. Oppure constatiamo che anche culturalmente assecondiamo semplicemente la natura di consumatori che il modello economico capitalistico ci ha imposto: siamo diventati bravi, bravissimi consumatori culturali.

Ora, non dobbiamo certo favorire l’interruzione di ogni condivisione virtuale, significherebbe adottare un atteggiamento decadente, obsoleto, tecnicamente ottuso. Oltretutto non se ne può più del cliché sfiorito e polveroso dell’intellettuale riflessivo, di “quello diverso”. Si tratta unicamente di muoversi con cautela, mano nella mano con la consapevolezza che nonostante l’apparente e decantata fine dell’esperienza estetica, questa non è sostituibile e mai lo sarà, neanche ai tempi del coronavirus.

Giovanni Anselmo, Entrare nell’opera,1971

Giulio Paolini, Mimesi,1975

Luigi Ghirri, Argine Agosta Comacchio,1989 © Eredi di Luigi Ghirri

Luigi Ontani, Tappeto volante, 1975

Nam June Paik, Electronic Superhighway Continental U.S., Alaska, Hawaii,1995


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