In lingua vietnamita, la Nạn đói Ất Dậu indica quella carestia – di riso e altri alimenti autoctoni – che, nel 1944, colpisce le popolazioni contadine del Vietnam. La causa della penuria è da ravvisare nelle politiche agricole dei coloni francesi e giapponesi, dettami stringenti che avevano estirpato le produzioni locali, per lasciare il posto a colture estranee ma più remunerative, come quella della juta grezza. La stessa juta oggi pende in fasci dalle incastellature del soffitto di Pirelli HangarBicocca, dividendo in due ambienti separati lo spazio, l’opera si intitola No Jute Cloth for the Bones (2019 – in corso). Stiamo quindi ora attraversando il “ponte di mezzo” di Reincarnations of Shadows, la prima personale in Italia di Thao Nguyen Phan (1987, Ho Chi Minh City).
All’ingresso della mostra si dipanano tre schermi orizzontali che mandano in loop due video a tre canali. Il primo, Mute Grain (2019), ricostruisce paesaggi di latta e lucciole nella campagna colpita dalla carestia. Due fratelli, i cui nomi, Marzo e Agosto, corrispondono ai due mesi più poveri del calendario agricolo vietnamiti, si rincorrono sul precipizio di una caverna sulle montagne: un limbo tra la morte e la vita, tra la storia neocoloniale corrente e quella della seconda guerra mondiale. I due si parlano solo con la scrittura filmica, attraverso i sottotitoli. Condividono ciotole di riso, uno sguardo verso Sud, «dove il sole ancora sorge», e un’inconsapevole vita come spiriti che li porta ad attraversare, in sedici minuti, duecento anni della storia del loro Paese. Nel mentre, lo scenario sonoro si costituisce di campanelli, grilli, e testimonianze orali dei sopravvissuti alla fame: «Feci le gallette usando quel riso marcio».
La giustapposizione tra racconti orali, folklore e immagini prese da archivi storici si reitera negli altri tre video esposti in mostra. First Rain, Brise-Soleil (2021 – in corso) e Becoming Alluvium (2019 – in corso) affrontano rispettivamente l’influenza dell’architettura modernista filostatunitense nel Vietnam del Sud, e il cedimento di una diga sul corso del fiume Mekong, emblema del profondo mutamento subito dal territorio vietnamita proprio a causa del colonialismo. Becoming Alluvium è il video che più condensa le politiche e poetiche di Phan. Parte da un racconto di cronaca, quello di due fratelli morti nel 2018 durante il collasso della diga: stesi con testa e piedi a penzoloni sulla sponda del fiume incriminato, i due narratori lo scagionano ambientandovi le loro vite passate: quelle di scrittore, della principessa Khmer e di un conducente di battelli. Queste vite si risolvono negli spruzzi di lacca e acquerello che Phan unisce alla pellicola. L’artista accosta la crudezza delle immagini delle spedizioni coloniali in Mekong alla fantasmagorica e politica ironia di una principessa e un sacerdote senza testa che, come nei più bei miti, danno vita a un delta fluviale.
Nella seconda sala, Reincarnations of Shadows (moving-image-poem) (2023), prodotto in collaborazione con HangarBicocca, si concentra sulla “resurrezione” della scultrice modernista vietnamita Diem Phung Thi (1920 – 2002), la cui ambigua «molteplicità» come membro della resistenza indipendentista del Vietnam, eppure figlia del modernismo occidentale, viene presa a modello di quanto le ombre della storia possano essere sfumate e contraddittorie. Il video si completa delle opere scultoree di Thi, esposte contiguamente su alti piedistalli. Reincarnations of Shadows da lontano sembra un planetario, con costellazioni di blocchi monolitici, sottili tessuti e svolazzanti luminarie che collegano le immagini in movimento con i loro referenti fisici. In effetti, per l’artista, il video è soprattutto un processo di reincarnazione delle immagini, dove queste rinascono ogni volta che vengono esposte e proiettate in contesti diversi[1]: una metempsicosi che porta spesso con sé, in mostra, dei ricordi sbiaditi e un po’ più fisici della vita trascorsa dalle diapositive. Thao Nguyen Phan disegna, cuce e dipinge principesse senza testa e bambini i cui genitali si trasformano in fiori e frutti. Lo fa con le tecniche delicate della tradizione vietnamita, come la pittura su seta e le laccature di oggetti funerari. Sculture, installazioni e tele sono i punti luce, le incarnazioni fisiche delle immagini in movimento. L’artista gioca, in maniera del tutto contemporanea, con il cinema espanso.
Eppure, in conversazione con Jaap Guldemond – capo curatore e responsabile della programmazione all’Eye Filmmuseum di Amsterdam – Thao Nguyen Phan non fa riferimenti né all’associazione né alla dipartita da una certa tradizione filmica. Ci tiene a ripetere di non voler essere confusa con un’attivista, a sottolineare che i suoi video non sono soltanto immagini di rivendicazione. Molto di come l’artista vede e occupa lo spazio espositivo, infatti, più che da una necessità di trasgredire o intestarsi in una certa tradizione, sembra dipendere dalle conversazioni: con persone, oggetti, eventi che, come già detto, possono reincarnarsi solamente nel momento dell’esposizione. Se osserviamo bene, Reincarnations of Shadows è una bi-personale dialogata con i fantasmi. Ci sono tante mani: quelle di Phung Thi, ma anche quelle di coloro che hanno manomesso le luminarie. Poi le tante voci di esseri esistenti ed entità inventate. Insomma, c’è un esteso potere concesso alle ombre. L’immaginazione e la storia, il reale e l’irreale si reincarnano nello stesso ambiente, con un approccio all’allestimento dal massimalismo delicato, come se, nelle sale buie di HangarBicocca, anche noi spettatori fossimo soggetti a una serie di visioni.
Le ombre non sono persone reali che tentano di parlare tramite l’artista: d’altronde, lei non è un’attivista. Non sono neppure le figure spaventose delle immagini delle spedizioni coloniali francesi e neanche le spighe di grano in un giorno solare nel Vietnam del Nord. Sono, soprattutto, ciò che lo sguardo inventa quando guarda tutte queste cose. E Phan rivendica prontamente, in un momento in cui un artista vietnamita è, di fatto e per forza, un artista postcoloniale, l’autonomia dallo sguardo dell’altrove da sé, la sovranità delle storie che si autocostruiscono sulle narrazioni imboccate pre e post colonizzazione. Tutti gli eventi a cui l’artista guarda con questa mostra, prima di essiccarsi in narrazioni ufficiali, sono stati setacciati dal folklore, hanno costituito i “raccolti” dalla quotidianità, dalla storia non ufficiale e, per questo, a differenza delle narrazioni dominanti sulla guerra e la pace, non appartengono esclusivamente a pochi eletti[2]. Insomma, in Reincarnations of Shadows, i cicli e ricicli storici sono come quelli del grano: stagionali, coltivabili e modificabili a proprio piacimento, se e quando – finalmente – si possiede la terra.
Alessia Baranello
[1] Note dalla conferenza stampa della mostra. Public Program, Thao Nguyen Phan in conversazione con Jaap Guldemond, 14 settembre 2023.
[2] «Credo che il folklore, le storie tramandate oralmente e i racconti della quotidianità racchiudano un livello più alto di verità. Seppur ricchi di elementi di fantasia, fanno parte della coscienza collettiva, a differenza delle narrazioni ufficiali che spesso appartengono a pochi eletti», Thao Nguyen Phan nel foglio di sala di Reincarnations of Shadows.
Info:
Thao Nguyen Phan, Reincarnations of Shadows
a cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli
in collaborazione con Kunsthal Charlottenborg, Copenhagen
14/09/2023 – 14/01/2024
Pirelli HangarBicocca
via Chiese 2, 20126 Milano
pirellihangarbicocca.org
Alessia Baranello (Campobasso, 1998) è una curatrice indipendente. La sua ricerca si concentra sul legame tra arti visive e questioni storiche, sociali ed economiche, con un’attenzione verso pratiche espositive sperimentali. Scrive di arte contemporanea, cultural e memory studies. È stata co-curatrice della residenza per artisti Uva Programme (Nizza Monferrato, luglio 2022) ed è co-fondatrice del duo curatoriale Scania Trasporti.
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