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Remo Bianco. Le impronte della memoria al Museo del Novecento

Il sistema dell’arte, si sa, premia o penalizza un artista o l’altro. Pubbliche relazioni, simpatie, capacità diplomatica, mille varianti possono influire sulle sorti di un artista. Di certo in genere è più fortunato chi ha una proposta forte, unica con cui imporsi. Chi è sempre alla ricerca di nuove strade ed è più interessato alla ricerca, piuttosto che a imporre un risultato determinato difficilmente è vincente. È il caso di Remo Bianco che, appunto, “ricercatore solitario” ha aperto tante strade, battute poi con più determinazione da altri, e non ha raggiunto la fama che avrebbe meritato. Importante quindi la mostra al Museo del Novecento promossa da Comune di Milano Cultura e ideata e realizzata dal Museo del Novecento in collaborazione con la Fondazione Remo Bianco. La Fondazione è stata costituita nel 2011 col supporto della sorella di Bianchi (questo il cognome dell’artista cambiato poi in Bianco), con attività di tutela e raccolta di documenti, immagini fotografiche e cataloghi d’epoca, alcuni dei quali in mostra, e una seconda attività di archiviazione delle opere d’arte (siamo già a più di 2000 opere). Ovviamente poi una missione è quella della diffusione dell’opera. Nel 1991 è stata fatta una grande mostra all’Arengario di Milano e un’altra nel 2006 al Vittoriale di Roma.

La mostra “Remo Bianco. Le impronte della memoria”, aperta al pubblico dal 5 luglio al 6 ottobre 2019, è curata da Lorella Giudici ed è allestita nel percorso museale del Museo, coinvolgendo anche gli spazi degli Archivi “Ettore e Claudio Gian Ferrari” con oltre 70 opere esposte che ripercorrono le fasi della ricerca di Remo Bianco, (1922-1988) nato in un quartiere popolare, via Giusti, della Milano del boom economico. L’interesse per le piccole cose, le cose più umili che gli artisti della Pop Art americana amplificheranno a dismisura qui vengono fissati con calchi in gesso, e diventano, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, le prime “Impronte” con relativo “Manifesto dell’Arte improntale” del 1956.

In una mostra del ‘64 al Cavallino di Venezia lui stesso racconta che alcune cose coincidevano con la Pop Art che si inaugurava in quell’anno alla Biennale. E lì, le impronte erano anche umane. Due calchi a grandezza naturale di un corpo maschile e uno in carne e ossa.

All’inizio degli anni Cinquanta questi oggetti inconsistenti, (monete, conchiglie, piccoli giocattoli), vengono raccolti nei “Sacchettini – Testimonianze”, sacchetti di plastica fissati su legno come un quadro tradizionale. Sempre la conservazione della memoria, dunque, il filo conduttore dell’opera, forse un’eredità del suo maestro, De Pisis. Laddove in De Pisis è pittura, pennellate tenui e pensose in Bianco è prendere l’oggetto, archiviarlo, mummificarlo per conservarlo. Ma a presentarlo in una mostra del ‘53 è Fontana e poi avrà a che fare con Restany (Nouveau Realism), per dire del salto che fa il suo lavoro. L’equivalente al contrario sono le forme di oggetti ritagliati in materiale plastico trasparente, vetro, legno, lamiera, plexiglas colorato, poste in successione su piani differenti, che ne esaltano la profondità e diventano le prime opere tridimensionali – i 3D –. In queste opere e nei disegni preparatori del 1952-54  c’è già qualcosa di quella che sarà l’optical art.

Poi ci sono i viaggi che lo segnano e gli ispirano nuove svolte nella sua ricerca.

Dopo un viaggio negli Stati Uniti, dove conosce Pollock, la sua interpretazione del dripping si manifesta attraverso una serie di ritagli di tela, carta, stoffa incollati così da ottenere la serie dei “Collages”, su cui lavora dalla seconda metà degli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta. I viaggi in Oriente. Già nel ‘43 in Tunisia e poi Iran Arabia, Libia, India. Teheran, le piramidi, l’isola Elefantina ecc. Nel 1961 nascono le Pagode per una mostra che avrà come titolo “Ricordi di un viaggio in Oriente”. Sono come dei castelli di carta in legno, ferro, alluminio, rame, dipinti o naturali. Una ricorda il minareto di Samarra per la sua ascesa elicoidale. Invade la galleria. I ripiani si moltiplicano, l’artista si esalta e propone di sostituire la torre di piazza San Marco con una sua gigantesca, altissima pagoda.

I lavori più noti sono i “Tableaux dorés”, che partono dal 1957. l’artista su un fondo monocromo o bicolore dispone foglie d’oro che avranno poi una grande fortuna nelle opere dell’astrattismo successivo. Dirà Mark Tobey “brillano come un altare, come le luci di un crepuscolo greco”. Ritorna alla riappropriazione di oggetti della vita quotidiana con le Sculture di neve. Siamo nel 1965 e l’artista definisce “Arte sovrastrutturale” questo tentativo ancora di congelare la memoria, i ricordi dell’infanzia sotto uno strato di neve artificiale.

Il salto verso un’opera di tipo interattivo avviene con i “Quadri parlanti”, del 1974, tele bianche o nere, o riportanti fotografie, che grazie a un sistema di amplificatori che, quando ci avviciniamo, ci accolgono con suoni o frasi registrate dall’artista. È quindi un ulteriore passaggio in profondità. Cominciato con gli strati che caratterizzavano i 3D, qui si va oltre la tela, quello che farà poi definitivamente Fontana. Oltre la tela c’è una voce umana che instaura un dialogo con il pubblico.

Il catalogo della mostra, edito da Silvana, è corredato dai testi di Lorella Giudici ed Elisa Camesasca, dagli apparati a cura di Gabriella Passerini e Alberto Vincenzoni e riporta un’intervista a Marina Abramovic del 2012, riguardo al lavoro di Remo Bianco conosciuto nel 1977 a Ferrara. La Abramovic e Ulay giravano su un camioncino Citroen, poveri e affamati, facendo della loro vita arte. Remo Bianchi li invita in trattoria dove paga con dei lavori suoi. È   tra i pochi a capire il loro lavoro. Rimangono in contatto per circa cinque anni. E proprio in questa intervista la Abramovic conferma quanto detto all’inizio. La cosa interessante di questo artista era il fatto di essere “in mezzo”, di essere incollocabile in uno schema, in un gruppo, la sua sperimentazione continua senza paura di sbagliare, di forzare sé stesso. Nella Milano dei giganti Remo Bianco era conosciuto ma in disparte. Un ricercatore solitario…

Info:

Remo Bianco. Le impronte della memoria
5 Luglio – 6 Ottobre 2019
Museo del Novecento
Piazza Duomo 8 Milano
Orari: 9.30-19.30; lunedì 14.30-19.30; giovedì e sabato 9.30-22.30. Ultimo ingresso consentito un’ora prima della chiusura del museo

Remo BiancoRemo Bianco, 3D – Senza titolo, 1970 c., cm 43,4 x 43,4 x 6 L’opera è composta da 3 strati sagomati, 2 in plexiglas e l’ultimo in legno Collezione privata

Remo Bianco, Tableau Doré – Senza titolo, 1965 Tecnica mista e foglia d’oro applicata su tela, cm 200 x 300 Collezione privata

Remo Bianco, Sacchettini – Senza titolo, 1956. Sacchettini di plastica con all’interno vari oggetti, fissati su tavola cm 102, 3 x 82,3 Collezione privata

Remo Bianco, Sculture neve – Aerei, 1965 Tecnica: due aerei in plastica e neve artificiale in teca di plexiglas Misure: (teca) h 20,5 x 20,8 x 20,8 cm Collezione privataRemo Bianco, Sculture neve – Aerei, 1965. Tecnica: due aerei in plastica e neve artificiale in teca di plexiglas. Misure: (teca) h 20,5 x 20,8 x 20,8 cm. Collezione privata


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