La Fondazione MAST presenta Displaced, prima mostra antologica del fotografo irlandese Richard Mosse, il cui lavoro si colloca all’intersezione tra fotografia documentaria e arte contemporanea con l’intento di rivelare i lembi nascosti dei cambiamenti sociali, economici e politici dell’epoca globalizzata nell’ambito di una riflessione etica incentrata sulle tematiche più attuali del nostro presente, come migrazione, conflitto e cambiamento climatico. L’artista – spiega il curatore Urs Stahel – evidenzia con le sue immagini ciò che precede e ciò che segue il momento culminante e traumatico in cui la violenza si manifesta, esprimendo una precisa posizione critica nei confronti delle convenzioni comunicative dei media, che invece tendono a privilegiare attimi eclatanti in pirotecnica competizione sul piano dell’efficacia emotiva. La scelta di raccontare gli avvenimenti mediante la rilevazione delle loro tracce, spesso occultate o trascurate dalla storia ufficiale, è evidente fin dai suoi primi progetti, come ad esempio la serie Nada que Declarar (2007-2008), che allude all’attraversamento illegale del confine tra Messico e Stati Uniti attraverso le testimonianze fotografiche degli oggetti persi o abbandonati dai migranti in fuga. Risponde allo stesso criterio narrativo anche la serie Breach (2009), che segue l’invasione anglo-americana dell’Iraq durante la seconda guerra del Golfo ritraendo le incursioni/occupazioni dei palazzi della famiglia di Saddam Hussein da parte delle truppe militari, colte in atteggiamenti di riposo in spiazzante armonia con le eleganti architetture (talvolta colme di macerie) e con la serafica calma del paesaggio circostante. Se in questi lavori il linguaggio dell’artista appare ancora in fase di definizione, la sua autorialità esplode in modo più maturo e raffinato nei progetti successivi, in cui Mosse scardina i criteri rappresentativi del reportage fotografico avvalendosi delle più aggiornate tecnologie, spesso di derivazione militare, che permettono di tradurre in immagine (a volte con risultati estetici sorprendenti) informazioni solitamente estranee alle percezioni visive umane.
Nella serie Infra (2010-2014) Mosse prosegue la sua esplorazione delle possibilità dell’aftermath photography [1]per raccontare le guerre intestine in Congo (che tra il 1998 e il 2008 hanno causato più di cinque milioni di morti) e indagarne le cause senza cadere nelle trappole del fotogiornalismo classico, dove l’estetizzazione del dramma e la pornografia del dolore prevalgono sull’indagine dei fenomeni. Qui l’artista decide di alludere alla crudeltà degli eventi in corso utilizzando con approccio espressivo ed evocativo la pellicola da ricognizione militare sensibile ai raggi infrarossi Kodak Aerochrome, brevettata durante la Seconda Guerra Mondiale per individuare tramite rilevamenti aerei la presenza di mezzi militari mimetizzati nel paesaggio. Gli scatti realizzati con questa tecnica trasformano il lussureggiante paesaggio naturale africano in una surreale visione virata nei toni del rosa e del rosso, la cui intensità varia a seconda della concentrazione di clorofilla. Se dal punto di vista simbolico il rosso si ricollega istintivamente al sangue versato nella terra, la connotazione brillante e “tossica” di quella che a prima vista sembra un’alterazione cromatica ottenuta in post produzione funziona come segnale di allarme che invita lo spettatore ad andare oltre ciò che è immediatamente visibile per scoprire le falle della narrazione mediatica istituzionale. In questo senso per l’artista il mezzo tecnologico, responsabile dell’estetica delle immagini, determina anche la grammatica che informa la narrazione, confermando la celebre frase di Marshall McLuhan “the medium is the message”, titolo del primo capitolo di Understanding Media: The Extensions of Man (1964), con cui il teorico della comunicazione canadese sintetizzava la coincidenza del mezzo di comunicazione con il messaggio da trasmettere. Le immagini che afferiscono a questa serie, composta da panoramiche ambientali immersive di grandissimo formato, ritratti di guerriglieri armati e campionature fotografiche delle unità abitative trasportabili con cui le comunità congolesi si predispongono a una fuga permanente dai frequenti attacchi di gruppi di ribelli, esprimono in modo iconico la condizione di vita e di morte sempre in atto in un Paese vittima dell’appetibilità delle proprie risorse minerarie e naturali, in stretto collegamento con i fattori economici e di potere che ne costituiscono i retroscena.
La riflessione di Richard Mosse sui livelli di invisibilità del reale, attraverso l’uso decontestualizzato di strumenti fotografici militari finalizzati alla rilevazione di ciò che sfugge all’occhio umano come espediente per cambiare la prospettiva dello sguardo e creare consapevolezza e attenzione sui drammatici avvenimenti dell’altra metà del mondo che la cultura occidentale tende a ignorare, prosegue nella serie Heat Maps (2014-2018) dedicata al tema dei flussi migratori nel Mediterraneo. Per questo progetto l’artista si reca nei vasti campi profughi allestiti in Grecia, Turchia e Libano per documentarne la sfaccettata realtà servendosi di un fucile fotografico di rilevamento termico, un dispositivo (considerato dalle leggi internazionali un’arma a tutti gli effetti) progettato per registrare le differenze di calore nell’intervallo degli infrarossi e individuare le figure umane fino a una distanza di trenta chilometri anche in assenza di luce. Anche qui l’approccio operativo, concettuale e processuale di Mosse parte da una meditazione sul mezzo tecnologico per elaborare un’estetica potente, funzionale all’amplificazione di situazioni già di per sé emblematiche ma politicamente condannate all’invisibilità. Le opere appartenenti a questa serie sono spettacolari panoramiche in bianco e nero che derivano dall’assemblaggio di centinaia di scatti, realizzati con la termocamera agganciata a un drone, che riescono a coniugare una stupefacente nitidezza dei dettagli e un’inquietante indeterminatezza nella resa degli esseri umani, che appaiono come labili tracce termiche prive di individuazione identitaria. Esemplare paradigmatico di questo progetto è Skaramaghas (2016), monumentale veduta della zona portuale di Atene in cui vediamo come identici container vengano utilizzati per lo stoccaggio delle merci e come abitazione provvisoria per i migranti in attesa di sapere se otterranno i permessi per proseguire il loro viaggio o se saranno reimbarcati verso i loro Paesi d’origine. L’opera, già esposta al MAST nel 2018 nella mostra collettiva Pendulum Merci e persone in movimento dedicata alla circolazione delle materie prime e dei beni di consumo nella società globale, è stata acquisita nella collezione della Fondazione, a conferma del suo impegno a sostenere i giovani talenti promettenti nel campo della fotografia industriale intesa in senso allargato. La tecnica utilizzata permette all’artista di scannerizzare e condensare in una sola immagine una pluralità di dettagli, implicazioni e narrazioni altrimenti impossibili, mentre le incongruenze derivate dal montaggio in post produzione (come la presenza di ombre senza la loro origine, il ripetersi di una stessa presenza in più punti della veduta o la differente messa a fuoco di certi particolari rispetto ad altri a essi contigui) suggerisce interessanti considerazioni sul tratto di infedeltà insito nell’immagine fotografica, anche nelle sue declinazioni apparentemente più oggettive. La stessa tecnologia impiegata per la serie fotografica Heat Maps ritorna nell’installazione audiovisiva Incoming (2017) – realizzata in collaborazione con il direttore della fotografia Trevor Tweeten e con il compositore e sound designer Ben Frost – che restituisce il decollo di jet militari impegnati in operazioni di controllo del Mediterraneo e le vicende dei migranti sui barconi e nei campi profughi come allucinata epopea contemporanea in cui nulla viene filtrato se non dalla particolare mediazione dei dispositivi di ripresa.
Negli ultimi anni Mosse ha iniziato a investigare la foresta pluviale sudamericana, dove per la prima volta ha spostato l’interesse della sua ricerca dalla denuncia dei conflitti umani alla tematica ecologica. Nella serie Ultra (2019), con la tecnica della fluorescenza UV, l’artista scandaglia il sottobosco descrivendo minuziosamente la biodiversità del suo ecosistema, mentre nella serie Tristes Tropique (2020) avvalendosi di una pellicola multispettrale usata in ambito scientifico per rilevare la presenza di minerali, inquinamento e altri dati ambientali, esegue una mappatura a volo d’uccello dello stato di sofferenza della foresta Amazzonica evidenziando con diversi colori, ancora una volta dettati dal mezzo tecnologico, le zone più compromesse a causa delle attività produttive umane, spesso portate avanti in regime di illegalità.
Info:
Richard Mosse. Displaced
a cura di Urs Stahel
07/05 – 19/09/2021
MAST
Via Speranza 42 Bologna
[1] Genere fotografico che incentra la documentazione di un fatto sul rilevamento delle sue conseguenze
Richard Mosse, Pool at Uday’s Palace, Salah-a-Din Province, Iraq, 2009 © Richard Mosse, Courtesy of the artist and Jack Shainman Gallery, New York
Richard Mosse, Platon, eastern Democratic Republic of Congo, 2012, © Richard Mosse, Collection Jack Shainman
Richard Mosse, Vintage Violence, eastern Democratic Republic of Congo, 2011, © Richard Mosse, Courtesy of the artist and Jack Shainman Gallery, New York
Richard Mosse, Come Out (1966) XXXI (Triple Beam Dreams), eastern Democratic Republic of Congo, 2012, © Richard Mosse, Private collection SVPL
Richard Mosse, Souda Camp, Chios Island, Greece, 2017, © Richard Mosse, MOCAK Collection, Krako
Richard Mosse, Skaramagas, Athens, Greece, 2016, © Richard Mosse, Collezione MAST
Richard Mosse, Still from Incoming #27, Mediterranean Sea, 2016, © Richard Mosse, Private Collection SVP
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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