Sono già passate quattro estati dalla morte dell’artista inglese Richard Smith (1931-2016), uno dei pittori più originali della sua generazione e uno dei più sottovalutati, nonostante l’enorme successo commerciale e critico negli Stati Uniti e in Gran Bretagna durante gli anni Sessanta e Settanta. All’inizio la sua arte colmò l’apparente divario tra astrazione e pop art, poiché la raffinatezza dei suoi dipinti rivelava l’inadeguatezza di tali categorizzazioni. Smith nacque a Letchworth, nell’Hertfordshire, figlio di tipografo. I periodi di studio presso le scuole d’arte di Luton e St. Albans sono stati separati da due anni nella RAF di Hong Kong. Dal 1954 al 1957 studiò al Royal College of Art di Londra, dove mise subito in luce la sua innata capacità di ridefinire i protocolli standard della pittura. La sua fu la prima generazione a essere fondamentalmente influenzata dalle prime ampie esposizioni in Gran Bretagna della pittura espressionista astratta americana alla Tate nel 1956 e, in particolare, nel 1959.
Da parte sua, Smith si impegnò con la nuova cultura del packaging e della pubblicità ed estese i suoi dipinti nello spazio della stanza a tal punto che le tele divennero quasi sculture. Al Royal College realizzava dipinti espansivi con pennellate vigorose e inclinate che sembravano astratti, ma già era desideroso di sottolineare il suo interesse per la cultura popolare e i mass media. Nella lettera co-firmata dal suo tutor John Minton osservava: “Per la tua generazione gli anni ’30 significavano la guerra civile spagnola; per noi significa Fred Astaire e Ginger Rogers”. La sua arte era astratta, eppure sempre radicata nel mondo reale. Nel 1959, una borsa di studio di due anni portò Smith a New York, dove i cartelloni pubblicitari di Times Square diedero corpo a un nuovo tipo di lavoro, costituito da dipinti in cui forme dai bordi morbidi e superfici modulate sembravano totalmente astratte, ma erano in realtà basate sui dettagli presi dalle fotografie delle riviste. Titoli come Revlon e Panatella indicavano il tipo di fonti a cui Smith stava attingendo. Pur avendo letto The Mechanical Bride di Marshall McLuhan, uno studio sull’industria pubblicitaria, il suo uso delle immagini commerciali non era né celebrativo né critico.
Rimase affascinato dalla pubblicità delle sigarette e dalla loro pervasiva presenza nei mass-media: ciò lo portò a realizzare una serie di opere basate sul pacchetto di sigarette. La sua prima mostra personale fu alla Green Gallery di New York (rivendicata da alcuni come la prima mostra di pop art solista), la seconda alla super-hip Kasmin Gallery di Londra. In galleria proiettò sul muro e sul pavimento grandi opere basate su pacchetti di sigarette flip-top; in questa performance utilizzò materiale umile come sacchi di iuta e pezzi di cartone, creando gigantografie su scala epica che rivoluzionavano i confini della pratica pittorica. Smith partecipò ad alcune delle mostre più importanti del suo tempo. Nel 1959 lavorò con Ralph Rumney e Robyn Denny alla mostra Place all’ICA, dove le tele erano posizionate sul pavimento per creare un ambiente labirintico; venne incluso nella mostra del gruppo Situation nel 1960 presso le Gallerie RBA, che celebrava l’impatto della pittura americana sugli inglesi; nel 1964 partecipò alla retrospettiva Painting and Sculpture of a Decade, dedicata alla produzione artistica del decennio ‘54-‘64 alla Tate.
Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, scriveva percettivamente sull’arte dei colleghi, rivelando in quei testi la propria consapevolezza dell’essenziale rilevanza del nuovo ambiente urbano e dei media fotografici. Fu un pioniere anche quando nel 1962 collaborò con il grande fotografo dell’epoca, Robert Freeman, a Trailer, un film a colori da 8 mm incentrato su sigarette e altri packaging commerciali. Il film è perduto, ma le sue note pubblicate affermano: “Dipingo sulla comunicazione”, spiegando che nel far derivare la pittura dagli oggetti quotidiani, cercava di stabilire un terreno comune tra lo spettatore e l’arte. Ognuna delle mostre personali di Smith stabilì una nuova frontiera nel territorio della pittura, estendendone la definizione; tanto che la sua personale alla Tate del 1975 venne strutturata attorno alla ri-creazione delle sue sette mostre più importanti. Le complesse strutture causarono il rigonfiamento delle tele lungo la parete o nella stanza; una sequenza di 12 metri di dipinto, che cambiava gradualmente forma, si basava sulle pagine di un calendario da cui erano state strappate delle pagine successive.
La gravità intesa come elemento poetico è diventata una componente chiave e le opere, tanto liricamente significative quanto formalmente innovative, facevano sembrare la galleria un negozio di vele pieno di colori. Negli anni Sessanta, Smith fece spola tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, insegnando per vari periodi in Colorado, Virginia e California prima di stabilirsi in Gran Bretagna, nel Wiltshire, nel 1968. Nel 1978 si trasferì con la famiglia a New York, dove divenne parte attiva della scena artistica, vivendo prima a Tribeca e poi a West Broadway. Continuò a realizzare i Kite Paintings, che divennero sempre più elaborati, per tutti gli anni Ottanta. Dal 1993, tornò a realizzare superfici piatte più convenzionali, creando spazio attraverso l’interfoliazione di forme dipinte (che vanno a intervallare e a dinamizzare forme quasi monolitiche), ma dimostrando sempre il suo uso straordinario del colore. Il curatore Bryan Robertson ha osservato che in tutto ciò che ha fatto Smith si è dimostrato un grande designer. Smith è stato uno dei cinque artisti che hanno rappresentato la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia nel 1966, dove vinse un premio, ma dopo gli anni Settanta il suo lavoro è stato esposto principalmente presso le gallerie di New York e Londra che lo rappresentavano, e la sua fama internazionale cominciò a declinare.
La mostra Sixties Art Scene al Barbican di Londra nel 1993 ha ricordato al mondo l’ambizione e l’inventiva dei primi lavori di Smith, ed è stata seguita da una mostra personale alla Bernard Jacobson Gallery di Londra tre anni dopo. Si potrebbe dire, tuttavia, che idee stereotipate dell’arte degli anni ’50 e ’60 hanno impedito che la sua fusione unica di valori astratti e argomenti contemporanei venisse completamente compresa, ed è forse il più grande cruccio che hanno i suoi biografi, parlandone come di un’enorme forza non espressa.
Matteo Rossi
Richard Smith, Vista, 1963, oil on canvas, 2132 x 3174 x 160 mm, Tate collection, image courtesy of Richard Smith Foundation
Richard Smith, Piano, 1963, Tate collection (purchased in 1975), pva paint on canvas, 1826 x 2772 x 1140 mm, image courtesy of Richard Smith Foundation
Richard Smith, Untitled, 1964, Tate collection (presented by the artist in 1976), screen print on paper, 651 X 651cm, image courtesy of Richard Smith Foundation
Richard Smith, Gift Wrap, 1963, Tate collection (purchased in 1975), oil on canvas, 2019 x 5290 x 800 mm, image courtesy of Richard Smith Foundation
Richard Smith, PM Zoom, 1963, Tate collection (presented by Rose and Chris Prater through the Institute of Contemporary Prints in 1975), screenprint on paper, 483 x 762 mm, image courtesy of Richard Smith Foundation
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