Nella disciplina semiotica esiste una spiegazione atipica, seppur molto chiara, del termine “simbolico”, descritto come l’immagine di un’onda battente la riva di una spiaggia, che rinnovando ripetutamente il proprio aspetto si dischiude a diversi significati tramite rivelazione[1]. Tale onda è il connubio dell’elemento visivo e scrittorio, i quali presentandosi alla memoria delle comuni coscienze in maniera insolita, richiamano la nostra attenzione stimolando una libera esegesi. Quest’ultima ha un carattere rivelativo, poiché l’immagine simbolica si schiude con un procedimento rivariante, ovvero che rimanda a specifiche emersioni tratte dalla propria cultura visiva.
Questo è quanto connota il disegno di Rinus Van de Velde (1983, Leuven, Belgio), le cui opere, con gli identitari e specifici rimandi alle iconografie della storia dell’arte, può essere interpretata attraverso un gioco d’apparenze, generando altresì uno spazio vivo per l’interrogazione. Eppure i dubbi che si originano non sono propri di chi osserva, bensì è il simbolico dell’opera che ci sorprende per il dialogo aperto e chiaro, quasi spiazzante, che innesca con la propria fonte iconografica. Va da sé che il progetto intitolato I am done singing about the past del citato artista, attualmente in mostra presso la galleria Tim Van Laere di Roma, sebbene sia frutto di un lavoro di studio sul passato non presenta alcuna forma di nostalgia. Per di più, oltre a essere un atto di riappropriazione e dominio verso determinate fonti iconografiche, quanto in rassegna riflette la costruzione di un rapporto transitivo tra la parola, intimamente connessa alla rappresentazione, e la memoria culturale collettiva.
Così, è naturale che per l’artista l’opera sia un esercizio d’interpretazione, in cui il normale linguaggio pittorico viene decodificato nell’equilibrio cautamente raggiunto nell’interferenza suggestiva tra immagine e parola scritta. Tant’è che la questione affrontata da Van de Velde intende stimolare la lettura interpretativa dello spettatore, giocando proprio sul rapporto tra la reciprocità dell’ideogramma e la figurazione iconica. Cosicché il lavoro finale risulta composto da un sistema visivo articolato in diverse parti, tutte cifrate da una netta differenza tra il linguaggio verbale e l’immagine. Ne consegue che ogni carta esposta richiede una contemplazione interiore, un avvicinamento afferente tanto alla linguistica quanto alla pittura, quale ideazione di una narrazione mentale. Secondo tale interpretazione le opere di Van de Velde colpiscono per l’uso di una tecnica cangiante, atipica, ecclettica che accomuna tutte le opere in mostra, rimanendo al contempo riconoscibile, ma difficilmente descrivibile. Tuttavia l’artista è sempre coerente nel lavorare con il raccoglitore per eccellenza di memorie intime, ovvero il supporto cartaceo, da cui sfociano opere spontaneamente equilibrate per naturalismo.
Van de Velde predilige così una obbiettività figurativa il più possibile aderente alla realtà, pur sempre sul filo di un orizzonte d’attesa, che si risolve nel rapporto tra la parola e l’immagine, stimolando altresì nuove osservazioni. Eppure, visionando le opere in mostra traspare una mano metodica e ben strutturata, che imposta le scene con scorci volontariamente caratteristici, come fossero tagli di ammalianti prospettive fotografiche alcune volte schiacciate o diversamente schiuse. Da qui si apre un’altra questione dei lavori di Van de Velde, ovvero l’aspetto fortemente pittoresco, da intendere come il particolare valore attribuito ai toni e ai colori, precedentemente risparmiati nella passata ricerca a favore dell’uso del solo carboncino. Scelte tecniche disposte secondo un naturale disordine e irregolarità, volte a raffigurare una meditazione pittorica libera, improvvisata e pregna di freschezza fortemente descrittiva. Così, il segno in alcuni punti si fa sottile, nervoso, mentre in altri è largo e dispiegato, siccome in tutte le opere si sfiora la questione fondamentale della pittura ovvero la verosimiglianza e il senso della narrazione.
Quest’ultimo argomento è molto caro all’artista, che lo affronta nel video A Life in a Day (2021-2023), in cui viene raccontata la routine quotidiana di un personaggio apparentemente comune impersonato fantasticamente dall’artista stesso. I frammenti del filmato esplicitano al meglio la derivazione della scultura allestita al centro della galleria raffigurante un’agave, che conferma quanto per Van de Velde l’arte sia strumento utile per portare alla luce il non detto, caricato da un forte senso di mistero. In ordine alla capacità di far dialogare il figurativo con il testo scritto, risulta con una indiscutibile incisività come in tutte le opere predomini un naturale prevalere del primo sull’altro. È utile domandarsi se la scelta sia il frutto dell’immagine di una storia o del racconto scritto e didascalizzato di determinati episodi. Appare in modo inequivocabile che l’unico fine è quello di accompagnare o altrimenti stimolare il lettore-spettatore nella maniera più semplice: utilizzando parole immediate e facilmente decriptabili.
Si conferma a questo punto che l’impegno di Van de Velde non è rivolto allo script, privilegiando di contro, il vivido risalto delle immagini, confermando che l’opera, secondo il suo pensiero, possiede il cuore nella scena dipinta. Così la mostra risulta la rivelazione di un artista prevedibile in rapporto al racconto, poiché è sempre lo spazio della figurazione la naturale visione complessiva del progetto espositivo, ponendosi come il luogo in cui gli appunti d’immagini prendono forma. Non parrà sbagliato allora considerare le opere come un teatro mentale, un palcoscenico quotidiano e interiore in cui la creatività è colta nell’atto di totale libertà, e in cui la trasposizione di una scena, dipinta nel proprio studio, assume modo espressivo dopo una ricerca iconografica rivolta alle forme artistiche meno imponderabili.
Per tali ragioni, le opere di Rinus Van de Velde sono da considerare così per come appaiono: scenari scorciati da un gradevole affaccio che affrontano sia la questione narrativa della pittura sia le modalità di svolgimento del rapporto tra l’immagine e il testo scritto. Inoltre, le annotazioni sottostanti non si sviluppano con una vita autonoma, ma necessitano del supporto delle vitalissime scene di riferimento, pregne come sono di un carattere simbolico, sì da permetterci di avvicinarci a una cronaca già vissuta, pur mantenendo uno specifico stilema d’identità espressiva. È doveroso notare, da ultimo, come l’artista prediliga il versante narrativo, svolto con una pluralità di ritmi visivi in cui le questioni del simbolico e del pittoresco si sfiorano mai esaurendosi, aprendosi invece verso stimolanti questioni da decifrare ed interpretare.
Maria Vittoria Pinotti
[1] Umberto Galiberti, L’esegesi simbolica, in Il gioco delle opinioni, Universale Economica Feltrinelli, 2019, pp. 58-59
Info:
Rinus Van De Velde. I am done singing about the past
Tim Van Laere Gallery Rome
04/05/2024 – 06/07/2024
Dal martedì al sabato dalle 13.00 alle 18.00
www.timvanlaeregallery.com
Palazzo Donarelli Ricci, Via Giulia 98, 00186 Roma
info@timvanlaeregallery.com | 06 97 603 423
Maria Vittoria Pinotti (1986, San Benedetto del Tronto) è storica dell’arte, autrice e critica indipendente. Attualmente è coordinatrice dell’Archivio fotografico di Claudio Abate e Manager presso lo Studio di Elena Bellantoni. Dal 2016 al 2023 ha rivestito il ruolo di Gallery Manager in una galleria nel centro storico di Roma. Ha lavorato con uffici ministeriali, quali il Segretariato Generale del Ministero della Cultura e l’Archivio Centrale dello Stato. Attualmente collabora con riviste del settore culturale concentrandosi su approfondimenti tematici dedicati all’arte moderna e contemporanea.
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