Ryan Mendoza e la pittura

La pittura di Ryan Mendoza è paragonabile, nel suo procedere, anche se in ambito diverso, all’architettura di Alvar Aalto che nel progettare una città riteneva di dover partire da una porzione e non dal suo insieme. Il dettaglio affascina, incuriosisce; lo zoom ci porta a distanza ravvicinata, non tanto per vedere i pori o i peli, ma solo per escludere ciò che sta attorno al soggetto principale in posizione di disturbo o che potrebbe arrecare distrazione. L’arte prolifica è quella che richiama temi su temi, figure su figure, ritagliando quello che appare superfluo. Lavorare sul dettaglio, concentrandosi sulla cancellazione è prassi del disegno anatomico che facilmente trasuda in discipline collaterali, le quali si dissociano dal nucleo originario per partenogenesi. Per esempio, là dove il protagonista europeo del razionalismo empirico, nel centrare il dettaglio, mirava con il cuore all’intera superficie terrestre, qui il Nostro mira all’intera pelle della pittura, procedendo per molecole, per blocchi, per tematiche, per inserimenti di segmenti antagonisti e autonomi. Questa pittura, figlia della diaspora e della dispersione, è comunque il frutto di una disposizione alla meraviglia che sottolinea l’essenziale dietro le più ardite molteplicità.  Si tratta di un complesso articolato di nomi, verbi e aggettivi: un complesso che fa flettere l’immagine alle sue dirette esigenze.

Ryan Mendoza, Man with hat in airplane, 1999, pittura su tela, cm 200 x 300, courtesy Massimo Minini, Brescia

In questa continua e modulata libertà espressiva, la vertigine pittorica si trasforma in uno stato di leggerezza che scaturisce e viene a galla senza sforzo, per restituire al NULLA tutta la grevità, l’orrore, la disperazione di una vita non ancora trasformata in calmo rapimento. Eppure questa carne che nasce dal disegno e si sviluppa nella chiusura delle linee di contorno, non è tanto in funzione del ritratto di una singola personcina, non mira alla signorina della porta accanto (da rappresentarsi nell’inconfondibile specificità del pantaloncino nero e dell’iride azzurra), s’incentra bensì su quella particolare transizione verso l’universale che caratterizza ogni grande rinuncia al particolare e all’aneddotico. Detto in altro modo, siamo al cospetto della sublime arte della concisione che, senza voler essere blasfemi, ci sorregge con la parafrasi: “Sia fatto, e fu fatto”. Percorso circolare, of course, perché nel ritorno delle cose a sé stesse l’idea della fuga non vi è contemplata e la diaspora non può che rivelarsi come un moto ideologico, quasi di distacco, tra corpo e corpo, tra stato e stato dell’umana condizione.

Ryan Mendoza, The cage, 2000, pittura su tela, courtesy Massimo Minini, Brescia

Questa ingorda volontà di incorporare immagini su immagini e di cercare continui riferimenti extra-pittorici (per esempio nel mondo cinematografico), però perfettamente inseriti col metodo dell’incastro o della sovrapposizione a-dimensionale, ci permette di trovare degli affratellamenti, avvicinando il lavoro di Ryan, nelle intenzioni, non solo alle pareti apotropaiche dell’uomo preistorico, ma anche al mondo “antropofago” di David Salle. Segni che uniscono e avvolgono e cancellano quelli delle caverne; segni laici e asettici quelli di Salle, il quale, all’interno di un unico piano pittorico, s’impegna a comporre (e contrapporre) immagini e motivi disparati, traendo spunto dai mass media, dalla pubblicità, e perfino dall’opera di Courbet e Géricault.

Ryan Mendoza, I love you therefore you are mine, 2010, pittura su tela, cm 141 x 145, Copyright: Ryan Mendoza. Foto: Fabia Zeyfang. Courtesy l’artista

Tuttavia, sebbene l’atteggiamento o la propensione alla composizione frammentata possono talvolta entrare in rotta di similitudine, il risultato è davvero del tutto dissimile. Là dove l’uomo primitivo “pregava” per la sua espiazione, mischiando il colore con il sangue, Salle “cuce” (o “cucina”, se preferite) in maniera asettica (affascinante ma asettica, senza cioè sporcarsi le mani). Infine, nel caso di Mendoza il verbo che si deve usare (e che da solo ci dà l’idea dell’azione nel suo farsi) è “impastare”. L’autore, nei suoi quadri IMPASTA immagini con immagini, lavorando quindi sugli strati più autentici e profondi della pittura, quelli che hanno ancora un fascino evocativo prima che concettuale, aldilà di qualsiasi proiezione mediatica o tecnologica; e sempre in uno stato di grazia che possiamo far risalire a un bacio messo di traverso sulla via di Damasco. Pensiero di certo oscuro ai più, ma che possiamo facilmente sbrogliare se si comprende che un percorso indica sempre un passaggio tra due punti diversi dello spazio, siano essi mentali o fisici, poco importa. Come il soldato Paulo, grazie all’accecamento, si fece fautore di un sincretismo che unì le sponde del Mediterraneo, così Mendoza, nel mettersi di mezzo a quella luce, provoca una coniugazione all’indietro che gli permette di tagliare in maniera netta, dalla nostra vita, qualsiasi inclinazione o declinazione falsamente modernista. Ecco, allora, che il transito si fa ponte della storia: necessario punto di superamento dell’attuale stagnazione. E questo succede quando il coro, nell’indicare una meta obbligata, spinge l’eroe a guardare oltre quel percorso giacché egli, nell’assoluto del gesto solitario, ha la capacità di far scaturire anche una ragionevole ipotesi di compendio tra le forze dilacerate e scomposte presenti sul campo. Così Paulo, così Ryan: ambedue cucitori di sensi, di transiti, di mutazioni.

Ryan Mendoza, Necessary Limitations, 2010, pittura su tela, cm 147 x 188. Copyright: Ryan Mendoza. Foto: Fabia Zeyfang. Courtesy l’artista

In questo modo la sua pittura, prima di farsi pigmento, è innovatrice nel pensiero, forte nell’invenzione e umile nella costruzione.  Innovatrice perché deve andare oltre il limite già fissato dal mondo a noi contiguo, forte perché deve avere carattere, umile perché deve respirare la sapienza dell’artigiano. Queste tre qualità l’autore le accoglie tutte e, pertanto, non abbiamo obiezioni da muovergli. Tutt’al più ci concediamo di condurre al nostro soliloquio qualche ulteriore annotazione. La regola che sottende tutto il lavoro di Ryan Mendoza non pretende di produrre preghiere, né ascetiche visioni. Pertanto non si situa in quel distacco dalla materia, dalla carne e dal sangue che può liberare l’artista dal suo destino: la sua è una pittura dell’ombra che a ben vedere non può sottostare alla rinuncia, tanto che gli eventi esterni premono con urgenza per metterla in pericolo. Più paura di vivere che di morire, allora, dato che qui il sacrificio ha un carattere evidentemente provvidenziale: stato simmetrico che accetta il destino di vittima predestinata.

Ryan Mendoza, Studio shot, 2010. Copyright: Ryan Mendoza. Foto: Fabia Zeyfang. Courtesy l’artista

Questo non vuol dire essere devoti all’antico verbo; significa semplicemente essere moderni con la consapevolezza che le proprie radici non possono essere tradite: trasgredire è possibile, tradire davvero no. E trasgredire all’indietro, oggidì, significa trasgredire due volte. Perciò, il filo rosso che unisce le caverne sacre dell’età paleotica alle incorporazioni di Mendoza, passando via via in rassegna veloce attraverso la “pittofagia” della modernità, non può essere spezzato; può essere solo modificato o messo in tensione: dove i nostri antenati sovrapponevano e cancellavano delineando i corpi nei profili e nella massa del colore, ora si dà fiato ai corpi e si appiattiscono gli spazi, avvicinando e schiacciando le figure. Il corpo, ora, è tutto nel pigmento, è per intero racchiuso dentro la sua anima vitale, invertendo così il rapporto tra spirito e materia che ha segnato la cultura occidentale dall’avvento del cristianesimo in poi. Ciò vale a dire che la bellezza della materia è luce del suo spirito che traspare all’esterno, in superficie, e non viceversa.

Ryan Mendoza, Fingers, 2017, stampa fotografica. Ph courtesy Spazio NEA, Napoli

Se il credo di Mendoza è questo fiume inesorabile che si insinua nel territorio dell’essere, allora sì che bisogna trovare un modo di superare, di trascendere “la dispersione carnale” che pure ci viene ripetutamente sottolineata per mezzo di corpi sensuali disposti al sacrificio massimo o già sacrificati un attimo prima che noi vi fossimo presenti. Il fiume della pittura divide le tenebre, le solca con l’incanto del suo scorrere permanente, separando l’io da un altro io, creando disaccordo, discordia o armonia; imponendo una frattura che può essere risolta solo mischiandosi nella corrente rumorosa e inquieta della modernità. Il luogo della dimenticanza, la fine della storia univoca, lo spezzettamento dei fili e il ricongiungimento di questi in un paradiso edenico non appartengono a questo pensiero, dato che qui si dipinge non per guarirsi, ma per guarirci. E di questo non possiamo che ringraziare l’autore. Abbiamo qualche speranza di essere ammessi in prima fila a questa guarigione? Sì, ma con difficoltà, perché noi siamo, in ogni caso, destinati a rimanere sulla soglia, a osservare dal buco della serratura. Sta poi alla nostra sensibilità praticare questo percorso a distanza, un percorso che però non può trarre in inganno: la distanza è anche un moto dello spirito che talvolta può precedere quello del corpo. Vitalismo della tranquillità, verrebbe da dire, se volessimo coniare un nuovo ossimoro, tanto che all’élan vital, di bergsoniana memoria, qui si contrappone un’interpretazione SILENZIOSA: ogni azione rappresentata sembra essere sospesa in uno stato di attesa, quasi che un moto epocale debba succedere a seguito di qualcosa di più grave che è già accaduto. Se si trattasse di scatti fotografici verrebbe spontaneo parlare di posa; siccome si tratta di figure dipinte parleremo di reincarnazione della permanenza del tempo all’interno di un’istintiva solitudine.

Ryan Mendoza, Putin my Putain/Ukraine Flag, 2020. Ph courtesy Spazio NEA, Napoli

Infine, non credo che Mendoza, dall’interno della sua poetica, si curi più di tanto dei significati simbolici; non vuole legarsi a una tradizione iperborea o iperuranica, né a una sacralità della devozione. Se c’è sacralità, se c’è devozione, queste debbono essere figlie dell’illuminismo, poiché il suo istinto pittorico (la sua narrazione per immagini) proviene dalla catastrofe della modernità conficcata nell’oscurità delle sue leggi molteplici e tentacolari. Mendoza, quindi, nel migliore dei modi, è oggi più moderno di Salle. Intendiamoci: sono ambedue autori di prima grandezza, due unicum nel mondo dell’arte, ma mentre il secondo è inevitabilmente consegnato alla storia degli anni Ottanta, il primo è l’espressione più pura e articolata del nuovo Millennio; un millennio che vive la tragedia endemica del terrorismo e che fa ancora difficoltà a comprendere come qualsiasi globalizzazione debba passare, necessariamente, attraverso la conservazione di nodi tradizionali di transito. Verrebbe da aggiungere una frase a effetto: artista della circoncisione, dato che la parola suona bene; purtroppo tale affermazione andrebbe giustificata, e non sono questi né l’ora né il luogo più adatti. Ci accontenteremo perciò di un’altra frase di chiusura: ritorno allo spirito (ovvero alla fratellanza) per mezzo del sangue della pittura.

(Ryan Mendoza è un pittore di origini americane, nato il 29 ottobre del 1971, e vive tra Napoli e Berlino).

Roberto Vidali

Info:

ryan-mendoza.com


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