È andata in scena lo scorso 9 aprile al Teatro Arena del Sole di Bologna, nell’ambito della rassegna CARNE – focus di drammaturgia fisica curata da Michela Lucenti, la prima nazionale di The Idiot del coreografo e danzatore giapponese Saburo Teshigawara (Tokyo, 15 settembre 1953), Leone d’Oro alla carriera della Biennale Danza 2022. Lo spettacolo, ispirato al capolavoro di Fëdor Dostoevskij, è stato concepito dieci anni fa proprio durante un soggiorno in Italia dal fondatore della compagnia Karas, nata nel 1985 con l’intento di ricercare “una nuova forma di bellezza” in totale libertà, indirizzo che ancora guida il lavoro di uno dei gruppi più influenti della danza contemporanea giapponese. L’artista, che nelle sue performance è autore anche delle scene, dei costumi e delle luci, interpreta la danza come un’arte complessa, fatta non solo di movimento, ma anche di immagine e spazio. Lo stile unico che lo contraddistingue è espressione di un metodo che nasce da una rigorosa disciplina volta ad affinare una capacità diffusa di ascolto del corpo, tramite la quale esso, epurato dalla contingenza delle cose, diventa capace di intercettarne l’autentica propensione. Secondo questo pensiero, che potremmo definire come una sorta di minimalismo sensibile, il punto di partenza deve essere una percezione sensoriale piena all’interno di uno spazio vivente, in costante trasformazione come l’essere umano. Nella danza il corpo, aperto a qualsiasi accadimento, passando da momenti di incantata sospensione a stati di capillare animazione in cui ogni sua molecola sembra vibrare nell’assecondare la musica, modella lo spazio attraverso un movimento che, oltrepassando i suoi limiti, rivela la qualità viva e simultanea dello spazio. Non quindi l’imitazione di una forma esteriore, ma un guardare attraverso la forma la dinamica delle cose per entrare in contatto con la loro intensità e restituirla attraverso il filtro della soggettività liberata dalle preesistenze dell’interprete.
In base a questi princìpi, anche l’interpretazione del romanzo russo che intitola la performance si basa più sull’incorporazione delle sensazioni, immagini, suggestioni ed emozioni trasmesse dalle parole piuttosto che sull’aderenza alla dimensione narrativa. Alla trasposizione diretta si sostituisce dunque la restituzione di una comprensione indiretta in una drammaturgia che fa parlare il corpo in sintonia con la luce e la musica. A proposito dell’elaborazione del passo a due andato in scena a Bologna, danzato con la storica collaboratrice Rihoko Sato, l’artista ha dichiarato: «Ero cosciente circa l’impossibilità di creare una coreografia partendo da questo capolavoro letterario; tuttavia, questa difficoltà è stata la chiave per approcciare e creare qualcosa di completamente nuovo. Una danza che possa esistere solo qui. Senza utilizzo alcuno del testo, un pezzo di pura danza. Non solo impersonando il carattere legato al testo originale, ma l’incarnazione del movimento esistente all’interno delle parole. Voci silenti che si sentono tra le parole, urla e gemiti, mormorii e sussurri tutto diventa movimento e danza. Provenienti dall’interno e che muovono il corpo. La danza di una vita in movimento nella forma di un corpo umano. Un corpo senza risposte che continua a interrogare la vita attraverso il continuo movimento. Il potere delle voci silenti e di un corpo rumoroso sono la struttura dell’intero lavoro. The Idiot raccontato dal corpo e non dalle parole».
Sul palco dunque solo due personaggi, il principe Lev Nikolàevič Myškin e la donna da lui amata, Nastàs’ja Filìppovna, immersi in una profonda zona d’ombra da cui di volta in volta i corpi emergono in simbiosi con una luce che sembra metterli al mondo come pure presenze espressive. Le musiche di Claude Debussy, P.I.Tchaikovsky, Oval, Frédéric Chopin, Nocturnal Emissions, Dmitrij Shostakovich, Franz Schubert, John Balance, Peter Christopherson, Drew McDowall, The Beloved, Geir Jenssen, Beequeen, Johann Sebastian Bach e Giuseppe Tartini ambientano i loro movimenti, che non hanno bisogno di alcun oggetto di scena per relazionarsi con la vicenda. Nei lavori di Saburo Teshigawara la luce è una presenza al pari del corpo che, oltre ad attivare gli interpreti attraversandoli e strutturandoli in qualità di architettura, atmosfera, dinamica e riverbero, ha dei veri e propri momenti di autonomia pittorica, qui molto evidenti nei passaggi tra un atto e l’altro. Lo spettacolo è, infatti, composto da una sequenza di scene che sintetizzano le tappe esistenziali del protagonista, il cui baricentro è individuabile nel suo altalenate rapporto con la donna. La centralità dello sguardo del protagonista, in assonanza con quanto avviene nel romanzo, è il filtro attraverso il quale tutto ciò che accade sul palcoscenico acquisisce la propria ragione di esistenza, come viene sottolineato dal tremolare della luce, che sottotraccia rimanda al suo soffrire di epilessia e all’instabilità del suo pensiero.
Non è essenziale, in questo spettacolo, riconoscere a quali episodi del testo facciano riferimento i diversi “quadri d’impressione” in cui si articola, il cui susseguirsi rispecchia, più che puntuali incursioni nella sua trama, le sensazioni suscitate dalla lettura dei suoi punti cruciali. Il coreografo, polverizzando la struttura del racconto, scandaglia in profondità le suggestioni generate dalle parole, quasi prescindendo dall’individuazione psicologica o narrativa dei personaggi. In scena, quindi, accadono solo frammentari accenni di eventi, come il primo incontro tra i due, gli incubi del principe, un difficile rapporto con la giacca che, una volta tolta, si rifiuta di essere indossata di nuovo, l’incursione di un grosso topo e la visione di Nastas’ja uccisa poco prima del finale. Queste citazioni tratte dal romanzo (di cui, non a caso, Teshigawara privilegia i brani privi di dialogo tra i personaggi) diventano avvenimenti che plasmano dall’interno i danzatori. I due attraverso le loro movenze ne disegnano nello spazio le conseguenze, provando a restituirle su un piano universale.
Al di là dell’impossibile ricostruzione della trama a partire da tali labili suggerimenti narrativi, ciò che emerge è una sorta di parabola della vita dell’essere umano in generale, alternativamente dominata da gioia, rabbia, sconforto, passione, dolore e, infine, solitudine. Per tutta la piéce Rihoko Sato volteggia attorno a Teshigawara appena sfiorando il suolo in punta di piedi (e le sue gambe per leggerezza ed elasticità competono con i fulminei guizzi del suo abito di seta nera), mentre quest’ultimo assolutizza con una straordinaria padronanza (se si pensa alla sua età anagrafica) una variegata gamma di linguaggi espressivi per rendere l’essenza dei sentimenti evocati. A volte il suo corpo sembra smaterializzarsi, senza mai perdere la struttura, per inseguire simultaneamente ogni rivolo della polifonia musicale di sottofondo, in altri casi si fa stilizzato come quello di una marionetta, mentre in altri si libra in volo rivelando la sua formazione da ballerino classico. Questa ricerca di autenticità assoluta, che richiede allo spettatore un’adesione altrettanto totalizzante per non perdere il filo e il coinvolgimento, è stata a mio avviso in parte tradita dalla scelta di utilizzare una colonna sonora registrata invece di un’orchestra dal vivo, decisione che inevitabilmente riporta tutto il lavoro precedente proprio su quel piano di finzione e artificio da cui sembrava fermamente intenzionato a emanciparsi.
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
NO COMMENT