Quello che gli uomini chiamano l’ombra del corpo non è l’ombra del corpo, ma è il corpo dell’anima.
(Oscar Wilde, Il pescatore e la sua anima, 1891)
Il mito platonico della caverna racconta di un gruppo di uomini incatenati ammessi a vedere solo le ombre del mondo esterno proiettate dal fuoco sulla parete di fronte al muro a cui sono legati; sedotti dalle immagini sullo schermo, considerano veritiere le “vacuità prive di senso” che si muovono davanti ai loro occhi, confondono la parvenza con la realtà, la sbiadita rappresentazione con la luminosa e stabile identità. Se nella filosofia greca la verità (Aletheia) è lo svelamento di ciò che è offuscato dall’apparenza ingannevole, l’ombra platonica (Skia) ha l’ambigua consistenza dei riflessi, parvenze evanescenti che abitano il regime notturno in cui prendono vita illusoria le immagini dei sogni. L’ombra è un’entità minore, definita per negazione rispetto all’oggetto che la proietta: incorporea, senza qualità né colore, è mancanza di luce e di bene, portatrice di quel non-essere in cui gli schiavi incatenati preferiscono atrofizzare le loro aspirazioni, piuttosto che affrontare i rischi della luce accecante e i pericoli della libertà.
Ma non sono poi proprio le ombre a darci la percezione della profondità, a rendere il mondo sensibile dotato di spessore e di senso? Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia racconta che la pittura ebbe origine dall’uso di contornare l’ombra umana con una linea, forse nel tentativo di una fanciulla di immortalare le sembianze dell’amato in partenza. La pittura è figlia dell’ombra, che duplica il reale senza l’onere dei dettagli, e come l’ombra è emanazione della figura umana, suo alter ego: ri-presentazione sintetizzata, immateriale, prossima alla condizione del fantasma, in contrasto con ciò che ha corpo e vita sotto il sole. Quando la luce acceca con il suo bagliore, ci impedisce di vedere e i demoni meridiani si ingigantiscono: le cose reali diventano spettrali e le ombre allungate e deformate si fanno epifania del mistero. L’ombra è inquietante, in essa ci si nasconde e si trama, da lì balzano improvvisi i pericoli. È il luogo canonico del perturbante, della morte che torna alla vita; come per ogni entità connessa all’ambigua natura dell’immagine e del riflesso, il doppio potrebbe in qualsiasi momento sostituire l’originale. Colpire l’ombra o calpestarla significa danneggiare l’uomo a cui appartiene, perderla è minaccia incombente, premonizione di morte.
Interpreta queste suggestioni la pittura della giovane artista iraniana Sahar Alizadeh (Tehran, 1995) che nei suoi quadri raffigura l’alienazione della società contemporanea come visionario e frammentato teatro di ombre. “Niente è come sembra – spiega l’artista – le nostre vite sono piene di dislocazione e vuoto anche se sembrano stipate di cose. Nei miei dipinti cerco di esprimere questa condizione esistenziale attraverso ombre e figure umane non identificate”. I suoi soggetti più ricorrenti sono scenari urbani disadorni in scala di grigio attraversati da presenze fantasmatiche in cui è pressoché impossibile distinguere l’ombra dall’entità che la genera. Potrebbero essere sogni o ricordi, proiezioni di paure e stati d’animo, a loro volta frammentati con un taglio cinematografico che allude a un’impossibile consequenzialità. A volte l’ombra rimanda alla sagoma deformata di ciò che possiamo supporre sia la sua origine, ma sovente il doppio diventa un’immagine autonoma che si prende gioco del soggetto sdoppiandolo o stravolgendolo completamente. Animali, uomini e oggetti si sfiorano sul terreno incerto di una penombra mentale che presuppone, all’esterno del campo visivo del quadro, una spietata luce onnisciente che inchioda queste visioni al piano pittorico. Alcune figure inoltre si presentano come il negativo bianco di un’ombra nera, all’interno del quale convivono altri simulacri che generano storie e visioni apparentemente irrelate. Diventa indeterminata quindi anche l’inviolabile coppia oppositiva buio-luce in cui, a partire da Platone, ha trovato ispirazione tanta parte della filosofia occidentale.
Stravolgendo gli assiomi consolidati della percezione, Sahar Alizadeh crea un nuovo luogo fondativo in cui i retroscena della vita, le passioni e le voci inconsce assumono un ruolo di primo piano diventando essi stessi la forma delle cose e non solo il loro motore interno e imperscrutabile. La natura ibrida dell’ombra, presenza incalzante e ineludibile, ma inconsistente e inafferrabile, diventa quindi un potente strumento per arrivare a una conoscenza obliqua, che invece di svelare le cose squarciando l’ipotetico velo dell’illusione, le lascia alla loro ombra, conservando intatti i segreti e le implicazioni che custodiscono. Ciò che di per sé è avaro di segni, il molteplice informe dai contorni sfumati e fluenti, si esprime in modo ambiguo e rifugge la crudele dissezione dell’analisi: proprio per questo l’ombra, catturata dalla pittura, riesce a rimandare in modo diretto a quanto è diffuso, non localizzabile o definibile preservandone la ricchezza evocativa e semantica.
Se la vita si può paragonare a una sorta di veglia alternata in cui quando l’uomo va a dormire la sua ombra, che conosce già il buio di cui è fatto l’aldilà, rimane a vegliare senza che i due diversi stati di coscienza si incontrino se non sporadicamente, Sahar Alizadeh ingigantisce e affronta il rumore di fondo dell’esistenza come radicale gesto di verità al di là delle apparenze, dando un corpo pittorico e tangibile alle pieghe più indifese dell’anima. I suoi dipinti urlano solitudine e spaesamento, fanno emergere il rimosso emotivo di una società, come quella contemporanea, che mortifica gli aneliti individuali in nome di un’impersonale efficienza, ma sono al tempo stesso un potente inno alla libertà di pensiero ed espressione. Mostrare il mistero immanente delle cose, solo artificialmente riconducibili a convenzionali categorizzazioni, è per lei risalire al significato originario della pittura, al suo quasi magico potere di materializzare assenze e compresenze indicibili e alla sua capacità di illudere i sensi per rivelare alla coscienza.
Sahar Alizadeh, Untitled, 2019. Painting, Acrylic,150 x130 cm
Sahar Alizadeh, Untitled, 2018. Painting, Acrylic, 70 x 30 cm
Sahar Alizadeh, Untitled, 2018. Painting, Acrylic, 80 x 70 cm
Sahar Alizadeh, Untitled, 2018. Painting, Acrylic, 18 x 19 cm
Laureata in arte contemporanea, collabora con varie gallerie d’arte contemporanea, fondazioni private, centri d’arte in Italia e all’estero.
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