Siamo fatti di ciò che non si vede. Adrian Piper si autodefinisce “1/32 malgascia, 1/16 nigeriana, 1/8 indiana”, ha un nome maschile e un corpo femminile. Ha fatto della soggettività black la sua cifra artistica, civile, politica, esistenziale. Nei suoi primi settatasei anni di vita ha dipinto, prodotto video, fotografato, realizzato installazioni, ha disegnato e si è esibita in performance, attraversando il secondo dopoguerra chiedendo al mondo come si vede e che tipo di identità si sente addosso. “Race Traitor” è il titolo dell’imperdibile retrospettiva in vita (più di cento opere, delle quali qui tracciamo l’identikit delle più significative e di quelle legate a cesure stilistiche o espressive dell’artista) con cui il PAC di Milano presenta i sessant’anni di carriera della multiforme artista e filosofa newyorchese. Aggirarsi all’interno degli ampi spazi luminosi della struttura, significa respirare la potenza del messaggio e dell’ispirazione della sua opera.
I primi lavori sono nel campo della pittura e del disegno: Piper manifesta sin da subito uno degli oggetti predominanti del proprio interesse, identificandolo nell’identità. Non disdegna di ritrarsi, anche se in trasparenza (o in negativo fotografico), e nemmeno di sconfinare nella psichedelia alterata da effetto LSD, richiamando temi presenti in “Alice in Wonderland”, la celebre opera letteraria di Lewis Carroll, all’epoca sentita pietra miliare di ispirazione. È il periodo di opere quali “LSD Self-Portrait from the Inside Out”, “Barbara Epstein with Doll” (la bambola era un elemento ricorrente della poetica artistica di Piper) oppure il più tardivo “Food for the Spirit”, installazione fotografica composta da autoscatti di nudo davanti allo specchio che, procedendo dall’inizio alla fine della serie, mostra la dissolvenza nel nero più scuro della figura dell’artista. Gli anni finali del decennio ‘60 sono contrassegnati anche da uno stile minimal, ma soprattutto improntato alla spazialità geometrica, in cui la creatività di Adrian Piper si sviluppa al di fuori della bidimensionalità per avvicinarsi a strutture volumetriche (“Recessed Square” e “Double Recessed”). In opere come la serie “Hypothesis”, la sequenza spazio-temporale delle fotografie si associa a diagrammi che richiamano il fluire delle ore del giorno e della notte.
È con “Art for the Art World Surface Pattern” (1976) che la questione etnica e la presa di coscienza politica irrompono definitivamente nella creatività e nella prassi artistiche di Adrian Piper. L’installazione è nei fatti un cubo tappezzato da ritagli giornalistici che riportano alcune atrocità reali cifrate dalla provocatoria firma di Piper: “Not a Performance”. Come vedremo anche in seguito, l’uso di un giornale (o di una rivista) reale è un elemento caratterizzante della sua produzione artistica. Il filo continua con i quesiti di “Close to Home”, una serie fotografica in cui all’osservatore viene posto un elenco di domande riguardanti quante volte (e in che modo) interagisce con persone nere nella sua quotidianità. La serialità geometrica torna nella recente installazione “Das Ding-an-sich-bin” (2018): voci audio, forme geometriche e specchi interagiscono in una sorta torre di Babele linguistica che richiama la centralità dell’essere umano. In “Here and Now” (1968), la passione per la spazialità diventa ancora magnificamente maniacale: su sessantaquattro fogli (quanti quelli di una ideale scacchiera) sono disposti dei riquadri che autodescrivono la posizione in cui si trovano.
La coscienza politica torna centrale nei “Political Self-Portraits”: il progetto si declina con una serie di autoritratti in cui c’è anche l’elenco dei fatti e delle idee che le hanno permesso di maturare e solidificare la propria consapevolezza engagé. Presa di coscienza civica che esplode nell’opera dedicata alla madre, “Ashes to Ashes”, un polittico fotografico che denuncia i danni del fumo e che incrocia il suo impegno ribelle nel momento in cui l’artista, in occasione di una mostra prevista al MOCA di Los Angeles, aveva rifiutato di esporre una sua opera in quanto era venuta a conoscenza del fatto che Philip Morris risultava tra gli sponsor dell’evento. Il percorso espositivo a questo punto diventa sempre più immersivo nella black consciousness. “Race Traitor” intitola la mostra e ci catapulta l’autoritratto dell’artista in atto di chiederci se davvero i tratti visivi possano determinare con esattezza un’identità. “Ur-mutter” ci rimanda all’origine dell’umanità: una donna e un figlio estremamente poveri dell’Africa ci interrogano sul luogo primigenio della razza umana. La declinazione di quest’opera è ancora più forte perché accostata a una foto in cui Jeff Koons è circondato da bambini bianchi e asiatici. Anche “Pretend” gioca sul duplice piano dell’autocentrismo bianco e indoeuropeo tramite l’accostamento di immagini di brutalità commesse sui neri statunitensi da parte della polizia.
Questa presa di coscienza socio-politica probabilmente raggiunge il suo apice in “Black Box/White Box”, una potente e drammatica doppia installazione cubica che ci urla addosso l’indignazione di fronte a Bush sr. che si congratula con poliziotti bianchi, affiancandone le immagini al pestaggio del tassista afroamericano Rodney King (Los Angeles, 1991). “Everything” è il titolo di un progetto iniziato nel 2003 ed è anche una pessimistica riflessione sul ruolo e la presenza negli Stati Uniti di un’artista come Piper e dei cambiamenti mancati all’interno della società a stelle e strisce. Dall’anno precedente, infatti, l’artista si è trasferita a Berlino per sconfiggere la disillusione: la danza a questo punto diventa catartica e necessaria e ritrae l’artista in alcuni video girati ad Alexanderplatz. Prima del trasferimento in Europa, la serie degli incubi vaniglia “Vanilla Nightmares” aveva cercato di rafforzare l’indignazione contro gli stereotipi cui sono sottoposti i neri d’America, usando anche alcune delle caratteristiche più comunemente attribuite, in accezione negativa, al mondo afrodiscendente: dalla violenza alle dimensioni sessuali, dalla pigrizia congenita al furto.
E, ancora, va riportata una serie fotografica di eccezionale semplicità ed efficacia: “Catalysis”, in cui, tra le varie declinazioni, risulta davvero iconica la parte in cui Adrian Piper, per farsi notare in metropolitana, gonfia con la bocca un chewing gum ironico e soprattutto bianco. La chiosa di questa mostra eccezionale va affidata all’alter ego maschile di Adrian Piper: “The Mythic Being” è infatti davvero iconico, con i baffi, la parrucca da uomo e gli occhiali da sole ed è funzionale alla ricerca artistica dell’artista newyorchese per capire cosa potrebbe succedere a un essere vivente sempre afrodiscendente, ma declinato al maschile. Questo essere mitico si mostra come un intruso provocatorio tra le inserzioni di gallerie d’arte pubblicate sullo storico settimanale “The Village Voice” e nella graduale trasformazione da lei a lui nel progetto tematico “I/You (Her)”.
Info:
Adrian Piper: Race Traitor
19/03 – 09/06/2024
PAC – Padiglione di Arte Contemporanea di Milano
https://www.pacmilano.it/exhibitions/race-traitor/
Sono Giovanni Crotti e sono nato nel giugno 1968 a Reggio Calabria per rinascere nel giugno 2014 a Piacenza, città dove vivo. Il mio reddito è garantito dalle consulenze digitali, per poi spenderlo in gran parte nell’arte e nelle lettere: sono stato e sono curatore di contenuti e organizzatore di eventi culturali per artisti, gallerie e spazi istituzionali, oltre che scrittore di recensioni di mostre, creativi di ogni epoca e libri.
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