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In conversazione con Simone Racheli

In conversazione con Simone Racheli

Mi chiedo quale sia la placenta originaria da cui sei stato generato e il liquido amniotico dentro cui ti muovi con maggiore scioltezza, dato che scultura, pittura, disegno, performance e installazioni sono linguaggi che maneggi spesso con eguale sicurezza.
Utilizzo varie discipline perché nei miei lavori servono, di volta in volta, a raggiungere la similitudine e la verosimiglianza alla realtà. Tale mimesi mi è utile per riprodurne le peculiarità e, attraverso queste, veicolare al meglio il messaggio. La stratificazione dei linguaggi serve a distorcere i significati delle cose, dei luoghi comuni, per crearne una parodia, un’altra possibile interpretazione. Tutto comunque nasce dal disegno, il primigenio gesto, immediato, incisivo per mettere al mondo un’idea.

A quanto potesse appartenere all’ambiente domestico sei riuscito a conferire nuove forme e diversi incarichi. Passando poi per il corpo, ti sei mosso poi verso l’interno dando vita a improbabili anatomie meccaniche, con la pittura e la scultura confusi a formare una nuova realtà. Quali significati attribuisci alla casa e al corpo?
Dalla necessità di indagare l’uomo nasce il mio atteggiamento chirurgico e operare in questo senso implica un movimento che dall’esterno va all’interno, penetrando la materia. Il corpo umano e la casa sono entrambi massa, corpo, luogo, spazio che contiene. Entrambi sono funzionali e il primo ha creato l’altro, il suo habitat. Infatti, la struttura e le funzioni dei due sono simili, hanno punti in cui si trovano meccanismi, entrate, uscite, luoghi in cui facciamo risiedere o depositiamo temporaneamente le nostre psicologie. Il corpo contiene il cuore che lo anima. La casa è animata dal corpo. Nel corpo risiede la nostra identità; la casa è il rifugio dove esternare le altre nostre identità. È anche membrana tra pubblico e privato, perché dotata di muri che separano, la pelle insensibile che ovatta e rende intimo lo spazio interno, come quello mentale. È luogo di trasformazione perché in essa introduciamo gli oggetti di quella umanità che sta fuori e poi attraverso un’investitura di senso privato li animiamo e li rendiamo contenitori in cui depositare il nostro vissuto quotidiano, la familiarità, le affettività. Nella casa la mente abbandona il corpo, si propaga e plasma il suo secondo bozzolo confortevole. Il corpo è il mezzo sensibile per stare al mondo; la casa è il guscio privato, abitato, sensibilizzato, plasmato dall’uomo per stare tra sé e sé.

In che modo scultura, disegno e pittura, sono utili alla rappresentazione del reale?
Nell’indagine dell’uomo e dei suoi oggetti ho utilizzato sia la scultura che il disegno perché sono tecniche usate anche per la rappresentazione scientifica. Simulando la realtà ho riprodotto oggetti scarnificati, richiamando l’antica tradizione in cera dei corpi plastinati. Quindi in modo descrittivo ho rappresentato in scultura i tessuti della carne, al pari di una tavola anatomica, e con il disegno, invece, ho imitato i volumi scultorei della materia esposta. La scelta nel descrivere le funzioni anatomiche con tale verosimiglianza serve a far slittare facilmente nella realtà l’oggetto creato, se pur esso sia improbabile e surreale, dando vita così ad un cortocircuito.
La tecnica pittorica è stata creata per poter imitare, rappresentare la realtà, soprattutto quella dell’immaginario. Sulla stessa superficie vengono indagati più fenomeni della nostra realtà, la natura e la natura umana. La pittura sottrae peso alla materia, permettendoci di farla fluttuare come nei sogni, divenendo per eccellenza la narratrice dell’animo umano.

Nel polittico “Crepuscolo” (2016) s’ammira l’esile impalcatura di una vita moderna traballante sotto il peso degli scarti del quotidiano. Mi puoi parlare di quest’opera?
In passato ho realizzato una scultura monumentale dal titolo “Precario verde”, la cui struttura sfidava la verticalità e staticità perché era un assembramento instabile, fatto di oggetti domestici. In seguito lo stesso soggetto l’ho realizzato attraverso disegni e acquerelli dal titolo “Gli eletti eretti” e “Giù per terra”. Tutti rappresentano agglomerati, pensati come strutture per stare in piedi, ma la loro verticalità inesorabilmente cede al tempo. Questo cedere lo si trova anche in “Crepuscolo”. Infatti il tramonto è l’uscita del sole dal nostro palcoscenico, è la luce stanca alla fine del giorno. Ho introdotto il colore per veicolare al meglio la densità crepuscolare. Questa atmosfera rispecchia la densità dei corpi, degli ammassi di cose. Difatti l’insieme risulta una grande massa, struttura e meccanismo celibe, coesa come una sociètà alveare. Tutta insieme partecipa all’istintiva resistenza alla caducità, che investe qualsiasi cosa, come la luce. Le forme si sorreggono su se stesse, si appoggiano le une all’altre per farsi forza, perché il proprio peso le logora nel tempo, sono prossime al declino, disgregandosi. È la condizione umana rappresentata attraverso l’ammasso degli oggetti, che ci appartengono e identificano. Riflette uno stato emotivo di precarietà, resistenza e rassegnazione al crepuscolo del corpo e della ragione che si degenerano, corrompono. Un unico agglomerato che si erige con affanno per ingannarsi dal destino dell’orizzontalità.

Un fremito di frasi pronunciate a metà, interrotte, sembra accompagni molti tuoi lavori. Per accennare a un’esistenza soggetta a un possibile drammatico cambiamento?
Tutto è trasformazione, quindi molti miei lavori riflettono la precarietà della vita, sono come vanitas. La vita è quel balbettio, come un filo di voce o di luce nel buio. L’incertezza e insensatezza dell’esistenza ci investono e tormentano la psiche, che poi ricorre ad escamotage, quelle indispensabili costruzioni di senso nell’esserci. Dobbiamo legittimarci per non sprofondare nell’oblio e in queste dubbie giustificazioni trasportiamo tutte le peculiarità umane, lo spirito, l’anima, il corpo, la specie. Quindi costruiamo, produciamo, aggiungiamo al mondo per ingrossare e appesantire la nostra presenza opponendola alla voracità del tempo. Tale è la resistenza psicologica alla transitorietà che in quel nulla ne ricaviamo un luogo vitale per abitare e riposare dopo la dipartita e dare ancora senso all’esistenza del nostro presente. Un filo di speranza per un possibile durare futuro, nell’aldilà. La proiezione di sé altrove è il nostro bisogno salvifico ma dall’esito incerto, come le frasi interrotte per paura della morte e dell’ignoto. Quel fremito costante lo anestetizziamo e esorcizziamo con diversivi astrusi, che ci distolgono dalla nostra coscienza.

“Grey to the Horizon” è l’ultima sfida dove ripensi a un luogo ideale. Un paradiso perduto rievocato con la polvere lasciata sedimentare sui contorni che mi fa sospettare un tentativo di controllo sul caos.
La polvere è materia che si é disgregata, prossima al caos e al tutto. Quella domestica è difatti lanugine che si deposita lenta, guidata dalla gravità, come pilotata in un viaggio nello spazio verso il suo luogo originario. Atterra leggera e poi si organizza dando vita a paesaggi forse somiglianti a quel luogo un tempo abitato che è il paradiso perduto, dove si è depositato anche il polveroso ricordo del nostro smarrimento. Utilizzo la materia caotica per poter ridare forma all’informe e individuare la nostra condizione terrena. Tornare, resuscitare, un ultimo tentativo di strappare la vita alla morte, ridare ordine in una forma sensata, equivale a creare dei corpi, come dei golem. Materia come la nostra si disperde nel caos o va verso quel luogo salvifico in cui può rimanere forma o proiezione di essa, spazio definito, luogo abitato. Come un demiurgo, trasformo la polvere in un’immagine, giardino e simulacro, luogo dell’ultima destinazione in cui far giacere l’essere. Come a terra lei giace.

Mi piace pensare la tua ricerca come un lento avanzare verso l’interno. Si percepisce il movimento del tuo sguardo dal panorama sociale all’intimità della casa che passa dal corpo per soffermarsi nel profondo di questo. È corretto parlarne inquadrarla in questo senso?
All’inizio del mio percorso, negli Anni Novanta, mi sono interessato alle immagini mediatiche perché erano il modo per analizzare e rappresentare la superficie del corpo sociale, la sua pelle. I mass-media producono personaggi, luoghi comuni, patologie della società, ossia scorie della morale e dei linguaggi. In seguito ho avuto la necessità di osservare la composizione di questa superficie, l’epidermide, quindi sono passato dall’interesse per il tessuto collettivo a quello per il singolo individuo con il suo privato. Ci sono arrivato attraverso gli oggetti, di cui ci appropriamo e che introduciamo dentro il grande manufatto domestico, ventre e teatro, dove avviene l’interazione e la loro animazione, e dove infine ci facciamo possedere da loro, investendoli di attenzioni quotidiane, amandoli. Ogni oggetto svela il motivo della sua creazione mostrando la psicologia del suo artefice. Per questo li ho sezionati, ispezionati, scoprendone la similarità, rivelandone la loro investitura umana e l’appartenenza a noi creatori. Gli oggetti sono funzionali quanto l’uomo è funzionale alla sua specie, divenendone oggetto. Attraverso questi slittamenti tra soggetto e oggetto ho sottolineato gli scollamenti della realtà, l’ambivalenza della materia umana e l’instabilità dei corpi artefatti che soccombono comunque all’usura del tempo. Infine, ho manipolato la materia disgregata, la polvere domestica, per cercare di ridare forma e senso al caos. Tento così di far emergere quel sentimento di instabilità che ci mina nel profondo.

Domenico Russo

Simone Racheli, Teapot, 2007, wax mixed media, natural size

Simone Racheli, Black-humor, 2009, mixed media, coffee powder, cm 23x30x55h

Simone Racheli, Giu per terra, 2012, drawing on paper, cm 210×140

Simone Racheli, L’afflitto, 2014, watercolour, drawing on paper, cm 210×140

Simone Racheli, Crepuscolo (n°4), oil on canvas, cm150x150

Simone Racheli, Grigio all’orizzonte, (detail) 2015-2016, mixed media, dust, cm 85x20x11


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