Arrivata in tenuta, ho sollevato lo sguardo sul firmamento. Limpido, azzurro, diafano. Tra il sole, i boccioli fioriti, il canto delle cicale, un vago sentore di legno. Se quel momento potesse esprimersi in musica, Bonotto Delle Tezze è un Debussy, La fille aux cheveux de lin. I colori si mescolano coi profumi d’uva e il vigore dell’arte si intreccia con la maestosità della natura, eterna. Come il succo nelle botti di legno, l’arte matura e ne diviene capolavoro.
La seconda edizione di Officina Malanotte, a cura di Daniele Capra, è l’esposizione che racchiude il prodotto delle tre settimane di residenza artistica presso l’azienda vinicola Bonotto delle Tezze. Questa edizione vede coinvolte quattro personalità: Jingge Dong, Laura Pugno, Aleksander Velišček e Lucia Veronesi. Ogni artista ha scelto il proprio luogo di lavoro, fra ex stalle e granai, per poi, la sera, ritrovarsi assieme agli altri nel cortile cinquecentesco, epicentro della tenuta. Il progetto si basa su un’armoniosa sinergia tra le radici della famiglia, la terra, i vitigni e l’arte, come soffio di una dimensione ancestrale.
Lucia Veronesi percepisce l’influenza avvolgente della tenuta e la trasmuta in opera d’arte. Con abilità e maestria, pazienza e dedizione, crea sculture di tessuto, intrecciando insieme tende, lenzuola, stoffe e indumenti da lavoro della tenuta vinicola di Bonotto Delle Tezze, impreziositi da cerniere e fili sgargianti. Lucia trasfigura l’essenza della tenuta in uno stendardo rinnovato, tra mura antiche e fatiche quotidiane, tra giardini rigogliosi e grappoli d’uva succulenti. Queste sculture fluttuano nell’aria calda, in un balletto evocativo, attraversate dai dardi di sole. Sembrano parlare col luogo, con i visitatori, con la memoria. Una storia intessuta senza parole, un canto antico. Come lenzuola stese al sole, che sanno di corse sfrenate nel prato, di una vita semplice, di un pezzo di pane e lucciole. Le stoffe, con il loro vissuto, si tengono per mano come madre e figlia. Lo sguardo si posa sul contenuto magistrale, in una contemplazione tra le pieghe del tempo della melodia primordiale.
Jingge Dong, come un uccellino, sorvola etereo nell’atmosfera, raccogliendo stelle nel suo becco e scendendo poi sulle tele, in un caleidoscopio onirico, in mezzo a nuvole ocra e paglierino, dove si intravedono fiotti di nebulosa. Dong è come una rondine, affilata e scrutatrice, che osserva dall’alto, decifrando il cosmo e annotando le dissonanze tra il tangibile e il miraggio. E quando si posa stanco sul ramo in Cina, osserva l’umanità. Le donne che cuciono con pazienza, i fumi che si disperdono, le macchine che ronzano, gli aghi che danzano, gli occhi gonfi, le stoffe, le luci al neon, i pochi danari che si rischiano e si pagano a caro prezzo. E poi stelle del cinema, che indossano abiti sfarzosi, calpestando con i tacchi la fatica, con grandi occhiali da sole e capelli voluminosi che nascondono le lacrime di chi non trova vie di fuga. Una bellezza aderente, come un guanto, che si fregia ma stringe il collo di chi non trova respiro. Tra nuvole, tazze, montagne, cielo e tessuto. Ma Dong ce lo sussurra con una carezza, con un accenno timido che viene immediatamente dissolto da altre nuvole gentili, delicate, dal sogno dolce.
Aleksander Velišček sfiora con riverenza l’evanescente cedere del cuore umano, riservato ai rari che sanno scrutare oltre l’apparenza, a coloro che bramano. Velišček prende per mano chi contempla, lo guida nelle profondità imperscrutabili, dove ancora si intravedono i rimasugli della codificazione artistica, e beffardo incespica con una velatura azzurra che verrebbe quasi da scartare, eppure persiste lì, onnipresente, cortese ma implacabile, balzellando tra una pennellata e l’altra. E il volto rembrandtiano guarda, talvolta austero, altre volte in cerca di consolazione, con occhio vivido e rugiadoso: aneliamo ad accarezzarne le fattezze, ma ancora una volta, quel filtro azzurro ci allontana, ineluttabilmente, dalle corde profonde del cuore. Questa è la grandiosa potenza di Velišček: rendere visibili quelle intuizioni di inadeguatezza, di plasticità, di artificio, di distanza che tragicamente costituiscono le tessiture intricate dei nostri legami, come se fossimo incapaci di scrutare senza riserve il sorriso di un infante, la sublime bellezza dell’arte, un tulipano danzante, il sole che si posa su maestose dimore, un albero carico di succose ciliegie, senza l’amara estraneità.
Laura Pugno, con rara perspicacia, ci conduce verso le dimensioni evanescenti della trasparenza. Grazie alla gemma del ghiaccio, accompagna il pennello e il pigmento, vigilando con scrupolosa attenzione sul delicato scioglimento. Tra tonalità smeraldine e sfumature cerulee, nel luogo etereo e sospeso, trova luogo il gioiello del ghiaccio, svelandone la sua sincerità. La carta, come una spia, accoglie le tracce indelebili, diventando archivio della sua memoria e medium fecondo dalla venatura vitale. L’attenzione di Pugno si materializza nella consapevolezza del ricordo, come se il ghiaccio potesse divenire alabastrino, inscalfibile. Questo processo, meticolosamente scandito, si avvale di misurazioni precise di temperatura e orario, come un esperimento di sublime raffinatezza lasciando un’impronta fugace, un eco.
E nel tepore della sera, tra il canto delle cicale e il calice, l’aura della residenza artistica diviene bellezza intramontabile nella tenuta Bonotto Delle Tezze, custode della tradizione e fucina dell’ispirazione, dove l’arte trova rifugio e ne diviene storia.
Info:
Jingge Dong, Laura Pugno, Aleksander Velišček e Lucia Veronesi, Officina Malanotte
10/06/2023- 09/07/2023
Bonotto delle Tezze
https://officinamalanotte.art/
Classe 1999. Si innamora dell’arte vedendo la madre dipingere. Studia Storia dell’Arte all’Università Ca’ Foscari (Venezia) e nel frattempo divulga online video di pillole d’arte. Si occupa di arte contemporanea in veste di critica, curatrice e artista.
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