Qual è la matrice primaria del fare pittura? Quali misteriose forze guidano l’istinto degli artisti quando manipolano la materia per rendere visibili le loro intuizioni in assenza di referenti reali? Le risposte sono molteplici e tutte egualmente fondanti a seconda di quali poetiche si prendano a riferimento per tentare quest’indagine antica quanto la pittura e altrettanto mutevole, pur nella costitutiva fedeltà a un ambito d’esplorazione che si identifica con la dimensione pre-verbale. La pittura dunque come costruzione di un altrove fatto di forme e colori, in cui l’essere umano misteriosamente si riconosce senza riuscire mai a comprendere appieno la sua sfuggente collocazione, che aleggia in una zona liminare tra le pure idee, le emozioni e le percezioni sensoriali.
A OTTO Gallery quattro artisti di generazioni differenti sperimentano sé stessi alla luce di tale interrogazione in un confronto fra pari guidato da uno di loro, che li invita a dialogare con la sua ipotesi a riguardo innescando una silenziosa conversazione tra opere di tutti da lui selezionate. Gli artisti convocati sono Loris Cecchini (Milano, 1969), Vincenzo Schillaci (Palermo, 1984), Marco Tirelli (Roma, 1956) e Matteo Montani (Roma, 1972), l’ideatore del progetto che quindi partecipa sia come interlocutore e sia come regista curatoriale dell’operazione. La mostra si inserisce in un format sperimentale della galleria che prevede nella sua programmazione un appuntamento annuale in cui uno dei suoi artisti propone e costruisce un progetto espositivo invitandone altri (interni ed esterni alla galleria) a cimentarsi su un tema di proprio interesse. L’intento è affrontare ogni volta un diverso discorso sull’arte attraverso i suoi specifici codici espressivi, incaricati di convogliare linguaggi differenti in una meditazione partecipata.
La riflessione su cui si incentra questa mostra è l’instaurazione di un’analogia tra le dinamiche del fare pittorico e quelle della natura a partire dal concetto di natura naturans, espressione latina che trova la sua prima concezione nella filosofia scolastica e successivamente nel “De la causa, principio et uno” (1584) di Giordano Bruno. Il neologismo latino “naturare” sintetizza qui l’azione tipica della natura, ovvero la sua attitudine a produrre autonomamente la sua stessa realtà animata da un’energia interna che si rinnova sempre, diversificandosi e modificandosi continuamente. La natura dunque, in quanto entità produttrice di forme autoreferenziali, secondo Matteo Montani mette in atto un processo creativo perpetuo analogo a quello che muove la creazione artistica, a sua volta alimentata da forze intrinseche che attingono alla dimensione trascendente con la stessa inesauribile capacità di differenziazione con cui la natura mantiene in vita sé stessa. Quelli che vediamo in mostra sono quindi paesaggi interiori che, nonostante suggeriscano la riconoscibilità di elementi afferenti al regno naturale, come nuvole, dune, concrezioni geologiche, maree o ghiacciai, in realtà si pongono non su un piano di imitazione ma di spontanea convergenza a livello processuale.
Matteo Montani presenta in questa sede gli esiti più recenti delle sue sperimentazioni su tela con miscele di pigmenti e polveri metalliche le quali, concentrandosi sui dislivelli del piano pittorico, creano potenti effetti di tridimensionalità, sempre soggetti al cambiamento a seconda dell’incidenza della luce che li scolpisce attraversandoli. Tale ricerca si inscrive in una più ampia riflessione, in precedenza portata avanti attraverso l’uso di solventi e carte abrasive, sull’immagine concepita come attesa iridescente di un’apparizione generata dagli assestamenti della materia manipolata per emanare e trattenere i bagliori di una luce che eccede le leggi della fisica per farsi epifania del trascendente. La connotazione spirituale del suo approccio è particolarmente evidente in “Sulla melodia delle cose” (2022), preziosa tavola dove un fondo scuro diventa teatro dell’espandersi di una sontuosa luce dorata. Il riferimento all’archetipo naturale (in cui micro e macro risultano interscambiabili) è più evidente in “Brina” (2023), misterioso paesaggio in cui il raggrumarsi di polveri di alluminio lungo linee di forza orogenetiche creano l’illusione di infiniti orizzonti in sovrapposizione scaglionati in profondità come se fossero i virtuosistici sottosquadri di un bassorilievo impercettibilmente aggettante.
L’interesse nel creare opere che risultino dinamiche alla percezione accomuna la poetica di Montani con quella di Loris Cecchini, qui rappresentato da due grandi lavori della serie “Aeolian Landforms”, che sembrano esplorare le potenzialità della dimensione pittorica per via di scultura. Si tratta infatti di superfici ondulate in resina epossidica rivestite da una fibra di nylon che conferisce loro una consistenza vellutata, molto invogliante al tatto, e che allo stesso tempo richiama la pulviscolare instabilità della sabbia accarezzata dal vento e i suoi cangianti riflessi. La pratica dell’artista, da sempre basata sulla sperimentazione di materiali inconsueti e industriali, utilizza scienza e tecnologia come strumenti euristici orientati a declinare il suo linguaggio estetico in un costante rapporto con la natura intesa come matrice permanente di forme. L’effetto di queste sculture, ideali frammenti di impossibili deserti prêt-à-porter, è conturbante per un’ossimorica commistione di referenze artificiali e mimetiche che sollecita ambiguamente i nostri sensi innescando alterne sensazioni di straniamento e riconoscimento a partire da immagini-ambiente che il nostro occhio interpreta come contraddittoriamente tese tra il modulo e l’irripetibilità.
La ricerca di Vincenzo Schillaci, il più giovane tra gli artisti in mostra, verte invece sull’emergere originario dell’immagine, che viene inseguito attraverso l’esplicitazione materica della temporalità e della memoria dell’opera. I suoi lavori prendono forma in un laborioso gioco di stratificazioni condotto sovrapponendo sulla tavola strati di gesso, calce e polveri minerali inframmezzati a campiture più classicamente pittoriche realizzate con pigmenti, tempere e inchiostri. Le tracce di questa progressione vengono intenzionalmente lasciate a vista ai margini della superficie pittorica (che rivelano astratte stesure uniformi) e negli spessori laterali, dove la pasta cromatica si solleva rivelandosi come corpo composito. Qui il contrasto è tra l’apparente evanescenza degli strati superficiali, che nel trasparire delle lavorazioni sottostanti appaiono come inconsistenti vapori colorati, e la contemporanea esibizione del loro insospettabile peso e presenza scultorea. Le opere dell’artista si potrebbero assimilare a esperimenti alchemici, in cui la trasmutazione visiva dei materiali genera immagini latenti che accennano a manifestarsi solo da particolari punti di vista. Nelle tre opere della serie “Phantasma” presenti in mostra le armonie cromatiche messe in campo sono un distillato di impressioni naturali, in cui sembrano condensarsi con differenti dosaggi le essenze del petalo, della luce filtrata dal sottobosco, degli umori vegetali, del cielo o dell’acqua piovana.
Marco Tirelli, le cui opere sono a prima vista le più dichiaratamente paesaggiste della selezione, si presentano come ingrandimenti sgranati di stampe fotografiche in bianco e nero, su cui l’artista interviene spruzzando tempera nebulizzata per rendere ulteriormente instabile la superficie pittorica. Il brulichio della puntinatura anche qui ha a che fare con una condizione di latenza dell’immagine, che appare come una rivelazione contestualmente negata nel suo imminente dissolversi. A questo modo la supposta incontrovertibile solidità degli oggetti ritratti si sgretola sotto i nostri occhi riconducendoli in quell’inspiegabile altrove in cui, come accennavamo all’inizio, le immagini nascono, si incontrano e si rigenerano sotto l’azione di forze che sfuggono al pieno controllo degli stessi artisti. La loro natura illusionistica risulta qui particolarmente evidente, in quella particolare accezione che ritorna sottotraccia e con intonazioni differenti in tutte le opere in mostra: non quindi l’illusione intesa come finzione, ma la rilevazione per via analogica dell’indicibile sotto forma di provvisorie aggregazioni di materia pittorica. La conclusione di questo excursus è dunque una domanda da lasciare inevitabilmente aperta sulla relazione che l’opera d’arte produce tra noi e il trascendente e che gli artisti coinvolti sotto la regia di Montani assimilano a una forza ineluttabile come la natura naturans degli antichi.
Info:
Loris Cecchini, Matteo Montani, Vincenzo Schillaci, Marco Tirelli. Stazionari Altrove
7/10/2023 – 15/01/2023
in collaborazione con:
Galleria Continua e Galerie Rolando Anselmi
OTTO Gallery
Via D’Azeglio 55, Bologna
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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