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Stefano Cescon, vincitore dell’ottava edizione del Premio Cramum per l’arte in Italia

Il 7 settembre 2021 a Villa Mirabello di Milano, in occasione dell’apertura della mostra internazionale “(la) natura (è) morta?” curata da Sabino Maria Frassà, Stefano Cescon è stato proclamato vincitore della ottava edizione del Premio Cramum per l’arte in Italia, il cui obiettivo è individuare le eccellenze artistiche e sostenere gli artisti più giovani in un contesto socio-economico di particolare fragilità per le generazioni emergenti come quello attuale. La commissione, composta dai 12 artisti di fama internazionale presenti in mostra fuori concorso e da un comitato scientifico formato da noti galleristi, giornalisti, collezionisti e intellettuali, si è espressa con il più alto margine di accordo nella storia Cramum. La vittoria rappresenta per l’artista il punto di partenza di un percorso di mostre e pubblicazioni che si concluderà tra due anni con una personale al Museo Francesco Messina di Milano. Stefano Cescon (Pordenone, 1989), diplomato con lode in Decorazione presso l’Accademia di Venezia, concentra la sua ricerca artistica sull’esplorazione delle potenzialità espressive della cera d’api. L’opera che gli è valsa il titolo di vincitore appartiene alla serie “Honey Boxes”, che indaga l’equilibrio tra aspetti antitetici, come naturale e artificiale, umano e meta-umano. Per approfondire questa ricerca, abbiamo avuto il piacere di rivolgergli qualche domanda.
Emanuela Zanon: I materiali protagonisti del tuo lavoro sono paraffina, cera d’api e pigmenti: come sei arrivato all’elaborazione di questa tecnica (che al momento costituisce la tua cifra espressiva) e attraverso quali fasi di lavorazione arrivi all’opera finale?
Stefano Cescon: Questo percorso è cominciato circa tre anni fa per merito di un’incertezza nei confronti della comune pratica pittorica. Mi rendevo conto che molte soluzioni formali che adottavo, per quanto funzionali al risultato finale, erano già state iterate e indagate. Sentivo la necessità di superare il carattere bidimensionale della superficie pittorica e l’unica strada possibile era cercare di approcciarmi a una dimensione tridimensionale, a rilievo. A questa sensazione è seguita di lì a poco la scoperta della plastilina (tipico materiale di modellazione scultorea) utilizzata in un corso laboratoriale in Accademia. Questa presa di coscienza nei confronti del potenziale del materiale, la sua duttilità ed elasticità, è stata fondamentale per cercare un dialogo tra l’esperienza visiva della pittura (a olio) e quella tattile della scultura, utilizzando come ponte il carattere organico di entrambe le cifre artistiche. Da quel momento è seguita una fase di scoperta fatta di prove ed errori, fino all’elaborazione della “sedimentazione” come azione gestuale che meglio esprimeva il carattere e la forza della ricerca. Dal punto di vista tecnico la maggior parte del tempo è spesa nella creazione di panetti di cera (paraffina e cera d’api in percentuali diverse) colorata grazie ai pigmenti contenuti nei colori a olio: cerco sempre un vasto assortimento di questi toni perché costituiscono la “tavolozza del pittore”, a cui segue la decisione di una scansione cromatica il più coerente e fluida possibile.
Che rapporto c’è tra casualità e progettazione nel tuo processo creativo, tenendo anche conto degli assestamenti cromatici e materici che gli elementi naturali utilizzati avranno nel corso del tempo?
Come accennato prima, cerco sempre un dialogo tra aspetti complementari, sia per ragioni espressive sia per conferire all’opera una maggiore resistenza e tenuta nel tempo. Vi sono diverse dinamiche che intercorrono nella realizzazione di un singolo pezzo, per quanto mi riguarda gli agenti esterni e la stagionalità nella quale si compie il lavoro sono aspetti decisivi. In questo senso la parola chiave è l’equilibrio tra la progettazione o l’idea iniziale e i fattori appena accennati. Questi non devono essere visti come un limite, ma anzi abbracciati perché grazie ad essi il risultato finale non è mai scontato. Lo stesso rapporto tra paraffina e cera d’api è motivato sia dalla vasta gamma espressiva che questo dialogo permette, sia dal giusto grado di solidità ed elasticità che donano al lavoro. Il caso non deve essere arginato in maglie troppo strette (in quanto co-autore, in parte, del risultato) e, allo stesso tempo, deve essere addomesticato a fini espressivi e funzionali.
Nel tuo statement dichiari che le tue creazioni partono dall’esigenza di proporre un dialogo tra la pratica quotidiana della pittura e l’esperienza estetica virtuale che ogni giorno ognuno di noi sperimenta all’interno delle vetrine social. Vorresti approfondire con noi questo legame?
Ogni forma di comunicazione porta con sé una particolare “estetica”: inevitabilmente questo è vero anche per quanto riguarda quella social da un decennio a questa parte. Mi sembra chiaro che la velocità che tale comunicazione esercita nella vita quotidiana abbia anche un riflesso nel modo in cui interpretiamo il mondo, uno schermo fisico che è metafora di uno immateriale e pervasivo: non sta a me giudicare questo dato. A un certo punto mi sono chiesto come la pittura potesse confrontarsi con questa realtà, mi sembrava che ogni tentativo di imitare questa estetica “virtuale” tramite la pittura si traducesse in una forma di meta-narrazione, cosa che di per sé non rappresenta un vero problema o una deminutio, ma che può diventarlo nella misura in cui non lasci spazio per la nascita di altri linguaggi o sia causa di una omologazione estetica. Desideravo invece perseguire un linguaggio (per quanto possibile) meno legato a riferimenti estetici già digeriti. Questa riflessione mi ha portato a chiedere se, di fatto, generare un processo potesse anche generare un’estetica più definita. Col tempo mi sono reso conto che il mio percorso mi portava a cercare una forma primigenia, qualcosa di antico, ma curiosamente mi sono avvicinato a questa consapevolezza riflettendo su tale parallelismo.
L’aspetto che ho trovato più affascinante dei tuoi lavori in mostra è il convergere di imperfezioni superficiali, trasparenze e sfumature in un’estetica impeccabile, che richiama alla mente illustri precedenti in ambito pittorico, penso ad esempio alle irradiazioni emotive di Mark Rothko. Vorresti raccontarci qualcosa dei riferimenti visivi che nutrono la tua ispirazione (se ce ne sono)?
Sono sempre stato affascinato da un certo grado di raffinatezza o qualità pittorica indipendente dagli stili o periodi presi in considerazione. Con questo intendo includere anche una certa esperienza artigianale che parte dalla costruzione di un telaio fino alla scelta dei materiali usati, credo che l’attenzione verso questi elementi sia determinante per la riuscita del lavoro. Se penso a un’opera di Rothko la mia mente si sofferma sul rapporto che la luce ha con il riverbero sulla superficie della juta, la tessitura della tela; a questo si aggiunge un attento gioco di velature che delimitano campiture definite. La forza del suo lavoro si trova nell’equilibrio di queste dinamiche. Il mio lavoro semmai è speculare: nel mio caso le velature non agiscono per sovrapposizioni ma per sedimenti di strati materici, alcuni riverberi di toni tornano in superficie a diversi strati di distanza, il colore non è mediato dalla superficie della tela ma dalla morbidezza del materiale, dalla cera stessa. Non ho mai guardato a riferimenti particolari da quando ho cominciato questo percorso, non voglio pormi limiti o paragoni; a differenza della pittura su tela (che ha un discreto bagaglio storico) sento di percorrere una strada parallela. Pensando a riferimenti in un contesto più ampio ho sempre ammirato la ricerca di artisti come Michaël Borremans, Gerhard Richter o Victor Man, autori che hanno coniugato la fase figurativa della loro ricerca pittorica a una pulizia formale e tonale.
Concluderei questa conversazione chiedendoti quali sono le principali difficoltà che incontra un giovane artista nell’inserirsi nel cosiddetto “sistema dell’arte” e quali sono secondo te gli strumenti più utili per intraprendere questo avventuroso percorso.
Con questa ricerca ho da poco iniziato a dialogare con il “sistema dell’arte”, non credo di avere ancora gli strumenti adatti per conoscerne tutti gli attori coinvolti; certamente è una realtà che concede poco spazio a chi si affaccia su una scena molto affollata, ma circoscritta da perimetri limitati. Credo che chi intraprende questo percorso non dovrebbe porsi (almeno nell’immediato) il problema di inserirsi nel “sistema”, o meglio: l’unico modo che ha per farlo in una prospettiva di ampio raggio è quello di concentrarsi nell’avere un’identità espressiva, cosa che dovrebbe coincidere in primo luogo con un bisogno personale. Questo mi riporta al discorso fatto in precedenza: il rischio della possibilità di rimanere sempre sintonizzati a un’antenna, quale possono essere i social, fa in modo che non si coltivi la meta-cognizione su sé stessi e quindi sul proprio lavoro. Diventa perciò più facile assorbire stilemi o estetiche che non abbiamo coscientemente “messo a setaccio”. La mia esperienza mi porta e pensare che sia necessario accettare una dimensione privata in questo lavoro, ma molto spesso il desiderio di prolungare il proprio periodo di formazione rallenta il processo prima menzionato. Questo non significa e non dev’essere confuso con l’essere dei solitari, credo invece nel potere dei solisti: guardare attivamente al percorso di altri colleghi e in generale delle loro esperienze ma al tempo stesso non esserne troppo coinvolti, coltivare una dimensione propria.

Info:

www.stefanocescon.it

Stefano Cescon, Honey Box Panel #14.20, paraffina, cera d’api, colori a olio su pannello in legno, 43,5 x 31,5 x 6 cm, 2020

Stefano Cescon, dettaglio di Honey Boxes. Panel #19.21, paraffina, cera d’api, colori a olio su tavola, 110 × 81 × 5 cm, 2021

Stefano Cescon, Honey Boxes. Panel #22.21, paraffina, cera d’api, colori ad olio su tavola, 110 × 81 × 5 cm, 2021

Stefano Cescon, Fuoco Fatuo, paraffina, cera d’api, colori a olio su tavola, 29,5 × 22 × 5,5 cm, 2021

Per tutte le immagini: courtesy l’artista e Cramum


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