Se potersi muovere virtualmente tra Shenzhen, New York, Kinshasa, Dakar e il confine tra Italia e Svizzera, il tutto visitando una piccola galleria comasca di white cube, è un segno dei tempi in cui viviamo, la mostra in corso presso galleria Ramo eccelle nel cogliere l’onda della contemporaneità. Eppure in questo caso, “muoversi” fa riferimento allo studio dei confini e delle connessioni tra culture, piuttosto che alla scoperta di territori sconosciuti. Sebbene notevolmente diverse, le opere di François Knoetze e Alice Paltrinieri seguono un interessante percorso parallelo, mettendo al centro della loro ricerca la questione multidimensionale dell’essere umano contemporaneo.
François Knoetze
«Chiudi gli occhi e vedrai i punti luce», suggerisce uno dei protagonisti di Dakar (2018), il primo dei quattro film di François Knoetze della serie Core Dump. Mentre lo dice, l’uomo mette le dita sulle palpebre e le preme per evocare un noto effetto ottico. Il gesto, apparentemente troppo letterale per essere interpretato poeticamente, diventa senza sforzo un’illustrazione della visione di Knoetze sull’importanza del corpo, il quale è «al centro del potere politico, religioso, sessuale, economico e rituale», che «caccia l’immaginazione dell’Occidente globale», come afferma Joseph Tonda, sociologo e antropologo di origine congolese e gabonese. Indagando la nozione di “colonialismo digitale” Knoetze dà un tono intensamente emotivo al suo film, al fine di raccontare il saccheggio di materie prime, lo scarico di rifiuti pericolosi e le conseguenze del massacro digitale sugli abitanti del continente africano. I rifiuti elettronici vengono scartati in tutto il Senegal. La maggior parte viene recuperata e bruciata dalla popolazione locale per estrarne piombo e rame vendibili, diventando inevitabilmente parte dei loro corpi, «facendo perdere vite, estraendo sangue, consumando sogni ed espellendo miseria».
La questione della luce è il fulcro anche del secondo capitolo, Kinshasa (2018), in quanto ci fa familiarizzare con la leggenda metropolitana raccontata da Joseph Tonda che si riferisce alla «violenza multiforme esercitata su corpi e immaginazioni presenti dai primi giorni coloniali all’era postcoloniale» come la definisce nel suo libro Modern Sovereign, The Body of Power in Central Africa (Congo and Gabon). «Nella leggenda, un bianco attraversa Kinshasa di notte, trasformando i neri in maiali con il bagliore dei fari dell’auto», il che simboleggerebbe la «violenza animatrice delle luci e della macchina capitalista coloniale, una violenza accecante». Ma l’ulteriore deduzione di Tonda è ancora più terrificante: «Se l’immaginazione popolare del Congo coloniale interpreta le luci abbaglianti dell’auto come una forza animalizzante (di produzione animale), non c’è motivo per cui gli schermi dei nostri dispositivi non dovrebbero produrre lo stesso effetto. Soprattutto perché le luci abbaglianti degli schermi riflettono merci come se fossero feticci moderni che motivano l’impulso biologico, un desiderio compulsivo di ricchezza materiale». Il film è basato su found footage e sul lungometraggio realizzato dall’artista che non solo racconta la leggenda, ma fa anche un passo ulteriore. L’uomo trasformato in un maiale deve affrontare un’altra sfida poiché i suoi compagni non sono non lo riconoscono, ma hanno paura di lui e cercano di catturarlo. Alla fine della storia, le persone bianche si tolgono le maschere rivelando le loro facce da maiali.
Dall’Africa vibrante e profondamente ferita, passiamo a Shenzen (2019). «Voglio raccontarti una storia di avidità, sacrificio, perdita e profonda disperazione» recita una donna asiatica su una sedia a rotelle mentre suona uno strumento. Indossa una parrucca bionda e occhiali da sole, e il suo elaborato vestito di paillettes nasconde una pinna scintillante. Un’affascinante creatura femminile che abita gli ambienti acquatici è un’immagine presente in tutte le culture. Nel 2012, come riportato dai media, i lavoratori cinesi che posavano un cavo sul fondo del fiume che collega Kinshasa e Brazzaville – come se stessero «tracciando la sua spina dorsale [del fiume] con una colonna di luce» – si sono imbattuti in ciò che credevano fosse uno spirito divino dell’acqua, conosciuto come Mami Wata. Nel film di Knoetze, i lavoratori che lo hanno catturato hanno iniziato a venerarlo come una loro divinità. Una delle fedeli di Mami Wata, un’ambiziosa donna d’affari cinese, chiede allo spirito di trasformarla nella donna più ricca di Shenzen. Il desiderio viene esaudito, ma sottotraccia si preannuncia l’epilogo drammatico: non solo la divinità dovrà essere liberata, ma il figlio della donna dovrà sopportare un pesante fardello; più pesante è il suo fardello, più prospera diventa la donna. La vita del ragazzo finisce con il suo suicidio a causa dei circuiti stampati che si attaccano incessantemente al suo corpo, trasferendo i sentimenti di ogni lavoratore che li ha creati direttamente nella sua carne. Sorprendentemente, mentre umani spietati e assetati di potere sono descritti come vittime della tecnologia che hanno creato, l’umanizzata Mami Wata, nelle ultime scene del film, gode appieno del mondo consumistico, muovendosi per la città e scattandosi dei selfie tra nuovissimi gadget digitali.
L’ultimo capitolo, New York (2019), inizia con il rapporto di studio di Boston Dynamics su un robot Big Dog, una macchina ambulante adatta alle esigenze dell’esercito. Se gli viene data l’indipendenza, questa piattaforma da passeggio sfugge, proprio come farebbe un cane sciolto e Knoetze trae la sua narrazione proprio da questo fatto. La sua immaginaria macchina a quattro gambe si muove liberamente per New York e viene tagliata in due mentre sale sulla metropolitana. Entrambe le parti, separate e notevolmente più deboli, vagando per la città da sole, trovano pezzi di manichini che completano i loro corpi. Questo diventa un incentivo per menzionare un Mr. Rastus Robot nero (creato nel 1931), chiamato anche “schiavo meccanico”, simbolo della servitù nera, che, come riportato dai media al momento della sua apparizione, «è stato forse invocato per lenire le preoccupazioni sui robot che sostituiscono i lavoratori umani». Quindi non è solo il piombo che i ricercatori hanno scoperto a scorrere nel sangue dei bambini a Dakar, ma la violazione della struttura spirituale e mentale della cultura: «lo spirito della tecnologia è già fuso con le tradizioni culturali precoloniali, la sensibilità africana e della diaspora». Le immagini in movimento di Knoetze sono spesso tagliate, capovolte o distribuite nello schermo; lampeggiano, saltano e volteggiano, riflettendo un mondo ansioso, difficile da afferrare nel suo insieme. Il materiale è un accumulo di found footage, interviste registrate e documentazioni delle performance dell’artista che «formano ritratti narrativi dell’incertezza nel sistema nervoso della Terra Digitale». Nelle sue parole, l’artista si concentra sul «rapporto tra tecnologia digitale, cibernetica, colonialismo e la nozione incantata di una non allineata Utopia umanista.», aprendo le porte a una triste riflessione sul tempo in cui viviamo.
Alice Paltrinieri
Alice Paltrinieri utilizza la scultura, le installazioni e i video per sperimentare la nozione di limite. Spesso si spinge attraverso la connessione e l’interazione con luoghi diversi. A Ramo, l’artista presenta un’opera site-specific, 9,5 km, che ricorda un’esperienza di videogioco e tre immagini realizzate durante la sua residenza estiva nella galleria. Mentre Knoetze individua un flusso continuo di connessioni in tutto il mondo, scavando nel passato e prevedendo il futuro, Paltrinieri ha uno sguardo più vicino ai confini del tempo e dello spazio, senza preoccuparsi di elaborarne delle definizioni, ma modellandoli e giocandoci liberamente. Il suo modo alternativo di stabilire relazioni tra tempo e spazio mette al centro una figura umana, anche se la sua presenza non è sempre evidente. L’artista ricerca i confini che separano le culture, comprendendoli e sfidandoli.
Gli inizi artistici della donna annoverano l’uso del mezzo grafico, che risultava lontano dai tentativi tipici di rappresentare un’immagine su carta. Ad esempio, 220 WS, 12534, NY, mostrata a Ramo qualche anno fa, esplora il rapporto dell’artista con la sua casa temporanea a Hudson (USA). Ci offre un “tour guidato” della casa utilizzando una tecnica grafica chiamata frottage che ha applicato ad alcuni dettagli nella struttura della casa, come graffi, paure e tracce. In questo modo, Paltrinieri non solo documenta il luogo che ha abitato, creando un ricordo intimo del suo rapporto con la casa, ma “congela” anche un tempo e uno spazio. In 9,5 km, Paltrinieri mette in pratica un dispositivo di rilevamento del movimento. Si dirige verso il confine tra Italia e Svizzera per ripercorrere i suoi passi mentre cammina sulla linea che separa le due nazioni. Mentre cammina, la luce collegata al satellite posta nella galleria risplende sulle pareti bianche, tracciando la sua performance. Mentre osserviamo la sua passeggiata seduti in galleria, guardando il punto di luce che si muove caoticamente intorno allo schermo, senza il contesto geografico o politico, ciò che resta è un’esperienza visiva simile a un videogioco.
Non è l’unica volta che Paltrinieri decide di integrare l’uso di luci e sensori. In Io sono qui (2022), un’installazione site-specific esposta a Palazzo Ducale a Tagliacozzo, un faro mobile a 360 gradi illumina e svela l’affresco all’interno di una cappella buia. La luce si muove, mentre il dispositivo GPS traccia i percorsi dell’artista 24 ore su 24. Di conseguenza, i visitatori della cappella possono vedere solo alcune parti, rivelate dai movimenti dell’autore. Il lavoro Looking for a safe place (2022) studia i suoi movimenti e quelli di suo padre per trenta giorni. Alla fine, l’artista sovrappone le loro traiettorie, ottenendo le 63 forme rosse dove i due si sono incontrati. Ogni display cerca di collegare le forme in modo diverso, alla ricerca di una nuova geografia e di un luogo sicuro. A Ramo, oltre al video, l’artista espone tre fotografie: Object in the background, Shadow behind head e Eyes fully Visible (2022). Queste tre opere sono composte da 12 fotogrammi, ciascuno in formato tessera. I titoli derivano dalle precise istruzioni del governo del Regno Unito in merito alle impostazioni necessarie per scattare una foto del passaporto. Paltrinieri cattura le luci del suo video 9,5 km ogni 7 secondi. La prima immagine in miniatura di ogni serie si chiama Plain light-colored background e indica il modo corretto di inquadrare una fotografia per il passaporto. Paltrinieri contraddice queste istruzioni, unendo il modo corretto e sbagliato in un unico fotogramma. Come nei suoi lavori precedenti, l’artista crea una memoria di movimento e interazione, incorporando con leggerezza la questione dell’identità.
Un angolo avvincente di questa mostra è costituito dalle contraddizioni tra i due artisti. La luce e le sue ripercussioni, ovvero i dispositivi digitali, rappresentano il male nell’intera serie di film di Knoetze. Paltrinieri, invece, usa la luce in modo giocoso, intrattenendoci e invitandoci a seguire il punto luminoso che rappresenta i suoi movimenti. L’avversione di Knoetze per il regno digitale è radicata nella crudeltà del colonialismo digitale che ha vissuto. Il core dump, come spiega l’artista nella sua intervista con Oulimata Gueye, è lo stato registrato della memoria di lavoro di un computer in un momento specifico. Il computer può richiamare questa “impronta” del suo stato precedente per eseguire il debug e il ripristino in caso di arresto anomalo. La sua serie di film, spiega nell’intervista, «estende la metafora di uno schianto al crollo imminente e all’insostenibilità del sistema tecnico-scientifico capitalista caratterizzato da un “eccesso di eccessi” e dal fascino per un’iper-modernità mascherata da progresso». Si può notare che il quadro più ampio di Paltrinieri, al contrario, si basa su categorie astratte: non dice niente apertamente, non sceglie da che parte sta e attribuisce l’importanza prevalente al momento, anche se le sue azioni si estendono al passato. Le sue opere evitano il sovraccarico della coscienza collettiva preferendo restringere l’attenzione a un numero prescelto di persone che l’artista osserva in maniera approfondita. Inoltre, mentre Knoetze parla dell’incertezza nel sistema nervoso della Terra Digitale, Paltrinieri, citanto McLuhan, chiamerebbe la comunicazione telematica una «estensione del nostro sistema nervoso centrale».
Info:
François Knoetze & Alice Paltrinieri, Links and fragments across memories and geographies
17/09 – 04/12/2022
Galleria Ramo, Como, Italy
Laureata in Fotografia e Arte della Registrazione Visuale all’Università dell’Arte di Poznan (Polonia) nel 2013. Laureata in Psicologia all’Università di Adam Mickiewicz a Poznan nel 2015. Nel 2018 ha frequentato il corso “Ultime Tendenze nelle Arti Visive” all’Accademia di Belle Arti di Brera. Scrive d’arte per varie riviste in inglese, italiano, francese e polacco. Artista, curatrice e ricercatrice. Nata in Polonia, vive e lavora a Milano.
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