Ricordo con precisione il primo incontro con Rachel Monosov, nel suo studio all’Accademia Tedesca di Roma. Mentre su un computer scorrevano le pagine del portfolio – tra corpi in tensione, avvinghiati e sculture che sembravano accogliere quegli stessi corpi, o forse intrappolarli, a seconda del punto di vista – la mia sensazione (il mio desiderio?) era quella di trovarmi là, tanto le immagini erano vivide, ipnotiche, persino inquietanti. Uno stato d’animo che ho provato solo di fronte ad alcune opere di Anne Imhof. La pratica di Rachel Monosov ha un taglio performativo. La relazione tra corpi, ambiente e “oggetti di scena” (che potremmo definire senza problemi “opere”) rende i suoi lavori particolarmente stratificati e complessi, oltre che intriganti. Si tratta di macchine perfette, eppure fragili, rette su un equilibrio calcolato al millimetro, dove il minimo spostamento potrebbe compromettere quel miracoloso bilanciamento. E a volte così accade. Forse la forza della sua poetica si colloca proprio in questa costante contesa tra equilibrio e caduta, tra perfezione e rottura.
Saverio Verini: Da dove parte il tuo interesse per questo tipo di pratica, in cui convergono diversi linguaggi, come performance, installazione, video, suono?
Rachel Monosov: Il mio percorso artistico è iniziato all’età di vent’anni, quando mi sono iscritta al primo corso di fotografia. I miei soggetti preferiti erano le persone più vicine a me, amici, familiari e me stessa. Ero affascinata dalla fotografia di scena, un mezzo che mi permetteva di creare nuove realtà e di fuggire da quella che stavo vivendo. Questa è stata la mia prima incursione nella regia. In seguito, grazie al mio master in cinema e belle arti, ho combinato gli strumenti e le conoscenze per creare performance dal vivo e lavori video. La forma dei miei progetti dipende da come voglio aprire la conversazione con il pubblico e dal mezzo di comunicazione più adatto al soggetto. Il mio progetto più recente è stato il compostaggio di sculture in cemento e vetro, che mi ha richiesto oltre un anno di lavoro. Imparare a gestire materiali e modi di produzione completamente nuovi è ciò che mi fa andare avanti ed emozionare.
Nelle tue opere l’utilizzo del corpo – anzi, dei corpi – è una costante. I performer che coinvolgi sembrano obbedire a una specie di regola, a una disciplina, ma questo controllo viene regolarmente messo in discussione, al punto che i corpi sembrano volersi ribellare a tale “ordine”. È così?
Sì, nelle mie performance lavoro spesso sulla creazione di tensioni e limitazioni del movimento. Mi interessa utilizzare le condizioni che creano sensazioni come l’essere intrappolati, il perdere il controllo, l’incapacità di prevedere o controllare le azioni degli altri e il non avere un senso del luogo, in relazione al movimento del corpo, agli stati mentali e all’ambiente circostante. Essendo cresciuta in un conflitto geopolitico in corso (l’artista è nata nel 1987 a San Pietroburgo, in Russia n. d. a.), mi affido al mio background autobiografico per esplorare alcune di queste domande. Forse tutto questo deriva dal mio squilibrio e dalle mie fobie. Probabilmente tutto ciò che ho fatto negli ultimi anni è stato affrontare la questione di come i meccanismi di potere che governano i civili e li costringono a fermarsi e a ricominciare il loro movimento facciano perdere l’equilibrio.
Quasi mai prendi parte alle tue stesse performance. Mi piacerebbe saperne di più sul modo in cui sviluppi i tuoi progetti, sul bisogno di coinvolgere altre persone e sulle difficoltà che questo comporta, da un punto di vista pratico (tempi, costi…).
Ogni performance che creo inizia con un copione che scrivo e con le foto e i video che raccolgo per ispirarmi. Una volta completato questo “pacchetto”, immagino chi potrebbe contribuire, sia esso un danzatore o un musicista. Poi, in studio, diamo collettivamente forma al progetto. Naturalmente ci sono degli aggiustamenti lungo il percorso, ma l’essenza del concetto originale rimane. È un processo lungo e, purtroppo, non redditizio per l’artista, poiché i costi di produzione sono molto elevati.
La “società del controllo” (così definita da Gilles Deleuze) e le relazioni umane che si consumano al suo interno mi sembrano essere al centro dei tuoi interessi. Quanto c’è di poetico e quanto di politico in quel che fai?
L’intricata interazione tra i nostri corpi e i nostri ambienti mi affascina e alimenta la mia esplorazione artistica. Sono desiderosa di scoprire nuovi modi di creare spazio e interazione, riflettendo sulle nozioni di strutture sociali, sorveglianza, controllo e libero arbitrio. Il mio lavoro si sviluppa intorno a varie forme di ‘addestramento’ e alla nozione di ‘corpo come macchina’ all’interno del sistema capitalistico e dei regimi autoritari. È molto politico e, spero, anche poetico.
Hai avuto modo di frequentare molti programmi di residenza, in particolar modo in Italia. Nel 2016 sei stata a Villa Lena, puoi raccontare l’opera che hai realizzato in questo contesto?
Ho partecipato a molte residenze d’artista, tra cui una che ho co-istituito con la mia gallerista, Catinca Tabacaru. Queste situazioni offrono preziose opportunità di ispirazione e di tempo per la produzione. Ad esempio, durante la residenza Triangle Arts a New York, Admire Kamudzengerere ha avuto l’opportunità e lo spazio per creare la nostra performance Transcultural Protocol, che è stata presentata alla Biennale di Venezia nel 2017. A Villa Lena ho avuto il privilegio di incontrare e collaborare con artisti eccezionali, con molti dei quali sono ancora in contatto. Durante la residenza, stavo completando il mio cortometraggio Melodica, in particolare ho lavorato alla colonna sonora all’ombra degli ulivi.
Saverio Verini
Info:
https://www.rachelmonosov.com/
is a contemporary art magazine since 1980
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