Flora Deborah è un’artista nomade per origini e approccio. Nel corso della sua giovane vita ha viaggiato molto, ha abitato condizioni differenti come la veglia, il sonno, la malattia, ogni volta portando con sé qualcosa di nuovo, frutto di una tradizione radicata e di una concezione della vita magico-rituale che l’accompagna fin da bambina. Nei suoi recenti lavori, che spaziano tra disegno, pittura e scultura ritroviamo suggestioni personali e mitologie collettive, rivisitati all’insegna della sovversione e di una prospettiva femminile.
Daniela Cotimbo: Potresti essere definita una creatura errante: il tuo percorso parte dalla Francia, continua prima in Italia, poi in Inghilterra e oggi vivi a Tel Aviv. La stessa cosa si può dire della tua pratica: parti studiando fotografia e ora ti dedichi soprattutto al disegno, alla pittura e alla scultura. In che modo questa condizione alimenta il tuo lavoro?
Flora Deborah: La mia è una famiglia di migranti e durante l’adolescenza e i primi anni di vita adulta ho spesso provato a lottare contro le mie origini, contro il bi-tri-quadri-linguismo che c’era in casa, volevo a tutti i costi sentirmi italiana, anzi milanese. Crescendo mi sono ritrovata a fare lo stesso percorso dei miei genitori e parenti. Se all’inizio mi accompagnava sempre una costante ricerca di casa e radici, a un certo punto ho accettato quel cliché secondo il quale la casa è dentro di noi e ho iniziato ad apprezzare il mio bagaglio culturale. Penso che il costante sradicamento contribuisca alla mia voglia di mettermi nei panni altrui, di farmi domande e di non fermarmi alla prima risposta. In egual modo, mi piace cambiare spesso i materiali con cui lavoro, cercando di capire come reagiscono, ma anche come cambio io stessa in relazione a loro, senza mai voler professionalizzarmi troppo in modo da lasciare spazio alla scoperta, al divenire, al caso.
Conosci bene anche i momenti di sosta. Mi ha colpito molto quando mi hai detto che a un certo punto il disegno è arrivato come forma di liberazione. Ci spiegheresti meglio cosa intendi?
Tra il 2019 e il 2020 sono stata costretta a letto: ho contratto la malattia di Lyme nella primavera del 2018 e, purtroppo, fino alla comparsa di sintomi importanti non è stata diagnosticata. Per un lungo periodo ho dormito fino a ventidue ore al giorno; i momenti in cui ero sveglia erano difficili, ma non appena chiudevo gli occhi l’immaginazione mi portava in mondi fantastici in cui vivevo una vita estremamente attiva. Così, durante le ore di veglia ho iniziato pian piano ad annotare i miei sogni e a fare i primi disegni. Fino ad allora non mi ero data il permesso di farlo, ero troppo intenta a chiedermi di cosa un artista contemporaneo dovesse occuparsi e come lo dovesse formalizzare. Invece la malattia, per quanto difficile da affrontare, mi ha liberata dal pormi costantemente questa domanda; ora non mi interessa più, faccio quello che voglio, se piace e trasmette qualcosa bene, se non piace va bene comunque.
Nel tuo lavoro parti spesso da narrazioni preesistenti, siano esse dipinti, oggetti magico-rituali, storie bibliche o archetipe che rileggi talvolta rovesciandone il segno. Qual è il senso profondo di questa operazione?
Mi piace reinterpretare, cercare messaggi segreti e se non ne trovo inventarli, penso che sia il modo in cui mi approccio alla vita e quindi anche al lavoro. Do vita a personaggi storici o di fantasia, ma anche animali, piante e microrganismi. Per quanto riguarda le storie bibliche trovo molto interessante ribaltare la narrazione, per esempio cambiando il soggetto e rivivendo la storia attraverso gli occhi di uno dei personaggi femminili o secondari. Così anche per i rituali.
Parlavamo di come la ritualità abbia sempre fatto parte del tuo mondo intimo. Una delle figure ricorrenti nel tuo lavoro è quella della strega, a sua volta oggetto di risignificazione grazie al lavoro di studiose quali Silvia Federici. Ci racconti di quella volta che sei andata sotto lo studio del tuo medico a inscenare un rituale di espiazione?
Circa due anni fa ho partecipato con un gruppo di amici a una residenza artistica al CCA di Tel Aviv. Il nostro progetto era di realizzare una serie di performance in città. La mia ha avuto luogo davanti al centro medico dove, quando ero affetta dalla malattia, mi recavo spesso in cerca di risposte. Il mio medico mi aveva ripetuto più volte che soffrivo di isteria e prescritto psicofarmaci. In realtà non si era accorto di quanto fossi ammalata. Così, siccome durante la residenza iniziavo finalmente a essere più in salute, ho deciso che il mio rituale sarebbe stato una catarsi. Ho invitato due colleghi artisti a posare per me ricreando un tableau vivant del dipinto “Streghe ai loro incantesimi” di Salvator Rosa. Si tratta di un quadro del 1646, ora alla National Gallery di Londra, che rappresenta con grande ironia i rituali che le streghe fanno al Sabba. Con noi una lunga lista di oggetti: candele, un’aspirapolvere, un cuore di mucca infilzato con un bastone etc. Abbiamo mantenuto ogni posa per circa cinque minuti e disegnato dal vivo. Nel frattempo abbiamo bevuto un cocktail-pozione fatto con le mie medicine naturali dentro a eleganti calici che ho creato io stessa in ceramica. Un inno alla vita e all’essere percepiti come streghe.
Cosa ti ha attratta principalmente della tua esperienza di residenza a Villa Lena?
Villa Lena è il setting ideale per poter creare, ha una vista mozzafiato, uno studio grande cinque volte il mio solito spazio grazie al quale per la prima volta ho potuto dipingere su grande formato. Inoltre, le persone incontrate in residenza, tutte di grande talento, ma anche di buon cuore, hanno reso l’esperienza molto speciale. Senza dimenticare anche che purtroppo nel momento in cui ho iniziato la residenza a fine settembre è anche iniziata la guerra in Medio Oriente e Villa Lena mi ha offerto rifugio, coccolandomi in un momento di difficoltà.
Daniela Cotimbo
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