Gili Lavy (Gerusalemme, 1987) lavora con proiezioni su larga scala e installazioni video immersive. La sua pratica si ispira al modo in cui le condizioni socio-politiche influenzano l’identità culturale e il territorio in cui esistono.
Nicola Trezzi: Credo che dovremmo iniziare questa intervista con “Autumn Clouds”. Anche se questo lavoro ha più di dieci anni ed è stato il tuo progetto di laurea alla Bezalel Academy of Arts and Design di Gerusalemme nel 2013, rivela molti dei temi che sono al centro della tua pratica. Puoi raccontarmi come è nata quest’opera e come la guardi dopo tanti anni?
Gili Lavy: “Autumn Clouds” è un progetto a me molto caro. Oltre a essere stato girato nel mio luogo di nascita, Gerusalemme, c’era qualcosa di così unico, intuitivo e fresco nel modo in cui è stato realizzato, qualcosa di molto crudo nel processo di filmmaking. All’epoca, il punto di partenza era la riflessione sulle narrazioni di spostamenti collettivi all’interno di aree di conflitto, che poi ha ispirato anche l’opera successiva, “Absence”. Volevo ritrarre un viaggio esaustivo e interruttivo di quello che sembra un gruppo di orfani. “Autumn Clouds” rappresenta l’inizio del mio profondo interesse per la condizione dei gruppi sociali in situazioni di costante movimento e mutevolezza. Esplora la migrazione come forma psicologica e come stato dell’essere, con personaggi accomunati da un senso di disorientamento che li opprime nella loro esistenza quotidiana.
Con “Mère Divine” queste problematiche si accentuano ancora di più. Utilizzando il monastero di Ratisbonne a Gerusalemme come set, l’opera è una riflessione sulla possibilità di creare un luogo in cui nulla cambia mentre tutto intorno muta drasticamente. Sento che qui il set, il luogo, gioca un ruolo molto più importante. Più che un set, il monastero come sito è il protagonista dell’opera. Sei d’accordo?
Sì, il luogo in cui si svolge questo lavoro video è davvero il cuore pulsante dell’opera. Il lavoro esamina il monastero come un luogo che, prima della creazione dello Stato di Israele, è stato in costante cambiamento. Costruito nel 1874 in Palestina, ha funzionato come quartier generale militare, poi come scuola professionale, orfanotrofio e infine come luogo di preghiera. Mi è sembrato che questo monastero fosse una capsula della realtà in questa complessa area del Medio Oriente, attraverso i cambiamenti e gli strati della storia, presentandoci la possibilità di esistere in una realtà di transizione, in una condizione esistenziale di incertezza. Riflette la storia dinamica del monastero in una terra da sempre segnata da radicali cambiamenti nel paesaggio politico, sociale e territoriale, e più che mai in questi giorni devastanti della guerra in corso.
Quest’opera incarna anche l’interessante rapporto tra la videoarte e il tuo legame con il cinema e la Land Art. Sebbene abbia una qualità cinematografica, l’opera potrebbe essere considerata la prima in cui il tuo interesse per la terra diventa visibile. Mi chiedevo se puoi parlare di come questo aspetto attraversa la tua pratica.
La terra è sempre stata al centro del mio lavoro insieme all’identità e alla connessione di entrambi i concetti. Spesso guardo con rispetto alla terra come alla Madre Terra e in ogni film la terra è la protagonista o il punto di partenza, tutto ruota intorno a essa. La terra detta la narrazione in molti dei miei film. “Mère Divine” e “Autumn Clouds” sono state le tappe iniziali di questo viaggio, proseguito con “Acreage”, “Furlong” e, più recentemente, “Common Lakes”. “Acreage” è un’installazione video multicanale che indaga i diversi significati della terra etichettata come “territorio”. L’opera presenta ambienti sociali costruiti a partire da storie collettive in vasti paesaggi selvaggi dove gli esseri umani sono come il vento: arrivano, passano e ci dicono molto con il loro silenzio. Lasciano lo spazio alla terra, per raccontarci le sue storie, per lasciarla essere. “Furlong”, pur essendo un’opera molto meno cinematografica, articola le idee di Terra in modo più scientifico. L’opera esplora l’atto di misurare un pezzo di terra, un’operazione strategica e meccanica che si trasforma in una frenetica ricerca di una terra incontaminata, forse immaginaria. È un viaggio nel tempo e nello spazio in cui scopriamo che i cambiamenti storici e politici hanno lasciato un segno nella struttura geologica del pianeta.
Nicola Trezzi
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