«La cosa più importante non è costruire bene ma sapere come vive la maggior parte della gente»[1] (Lina Bo Bardi)
Piazza Abbiategrasso e il suo frinire di grilli e motori, l’animato e super sorvegliato Carrefour, gli zainetti che escono dalla metro verde e un enorme anfiteatro vuoto di 6400 mq che gli abitanti chiamano da sempre La Piana. «Si tratta di un’area pedonale sopraelevata nascosta tra complessi multifunzionali anni Settanta, casermoni e grandi supermercati»[2], uno di quei luoghi, descritti, tra i tanti, da La Pietra, che la mancanza di disciplinamento interno e l’esclusione (non solo metaforica) dalle mappe dell’urbanistica hanno reso «disponibili dal punto di vista fisico e mentale, luoghi con la possibilità di sviluppare creatività»[3], aperti ad assumere condizioni, ruoli e stati differenti, a ospitare pratiche di appropriazione creative: le gare di motorini dei ragazzi del quartiere, i progetti della compagnia teatrale Atir che, fino al 2007, aveva gestito gli spazi del Teatro Ringhiera, mercatini, spettacoli e laboratori di arredo urbano.
L’ultimo tra questi progetti coinvolge il collettivo ZUMMAUT (Milano, 2021) [https://www.instagram.com/zummaut], che, più che di design e fattibilità industriale, si occupa di tracciare nuovi modi di abitare: «Raccogliamo spunti e pensieri quotidiani al solo scopo di scovare e inseguire nuove abitudini di vivere lo spazio domestico e urbano […] al fine di parlare di qualcosa di concreto, problemi, questioni contemporanee e situazioni a noi in qualche modo vicine»[4]. Le New Habits[5] del collettivo centripeta formato da Luca Magistrali, Alberto Massara, Marco Merafina, Alice Platania e Giacomo Quinland si erano già innestate sulla griglia grigia di Milano. La Seduta Infinita, realizzata in occasione di Guiltless Plastic (Palazzo Brandello, Milano, 2022), a cura di Rossana Orlandi, pensava a una ridistribuzione creativa della plastica prodotta dalla metropoli milanese, costruendo una panchina, linea, tracciato che attraversasse e ricoprisse la città come una striscia di vernice fresca: «Riciclando ogni singolo grammo della plastica utilizzata in 5 giorni a Milano, si potrebbero realizzare 1.638km di Seduta Infinita»[6].
Per la mostra Ostile, ZUMMAUT riparte di nuovo da una seduta urbana, questa volta non infinita e supposta, ma forte nella sua tangibilità e inospitalità: le panchine arcuate di Piazzale Gabrio Piola. Come tante piazze recentemente rinnovate e riqualificate, Gabrio Piola è stata soggetta a quel miglioramento urbano di cui Andrea Staid traccia le falle con una ricerca etnografica sull’abitare informale e autogestito a Milano[7]: una costellazione di interventi che hanno trasformato l’ex hinterland milanese e i quartieri operai del Dopoguerra in complessi residenziali, che, sotto la patina dell’architettura sostenibile e dell’efficientamento energetico, si rivelano assolutamente inaccessibili ai più e sottraggono spazi per gli abitanti originali della zona[8]. Le tradizionali e utili panchine vengono sostituite da un’architettura ostile, difensiva, inospitale, volta a impedire comportamenti ritenuti vandalici o antisociali, che possano ledere l’ordine e il decoro pubblico del rinnovato quartiere-vetrina. Tra queste architetture dell’unpleasant design troviamo dispositivi – come panettoni e spuntoni – che parlano di una città omologata intorno ai dettami del decoro, ai quali, spesso, non si può rispondere.
Nello spazio navale affacciato su La Piana, sei pannelli ad altezza uomo raccontano, con le fotografie di Rebecca Bridgwater, la piazza prima e dopo l’installazione di Simbionte (2023), una struttura in poliuretano espanso EVA con archi ellittici realizzata su misura partendo dalle dimensioni delle panchine di Piola. Guardandola e sedendovisi è chiaro che l’intento del collettivo non è quello di affrontare un problema di funzionalità e comfort (non è detto, infatti, che la struttura di ZUMMAUT sia più o meno comoda della panchina preesistente), ma porre un cappello e un accento visivo sul discomfort. Il grottesco scivolare e slittare della struttura sulla panchina, il divertente accomodarsi a gambe aperte, il creativo costituirsi di disegni e piccoli tracciati ogni volta che ci si siede sul poliuretano, sono solo alcune di quelle improvvisazioni che, se non consentite dal decoro, sono messe quasi su un piedistallo enunciativo nel lavoro del collettivo. Simbionte pare permettere una serie di profanazioni non intenzionali, ingenue, individuali, continue, che, avvengono, inconsapevoli, semplicemente vivendo lo spazio pubblico, assimilabili a quelle descritte da Walter Benjamin e Asja Lacis in Napoli Porosa[9] (1925) dove le rovine e i palazzi multistrato della città partenopea erano presentati come spazi per la realizzazione di un teatro improvvisato da parte della cittadinanza.
Il poliuretano espanso, d’altronde, ha caratterizzato molte delle sperimentazioni riconducibili al design italiano del gioco. Sicuramente vengono in mente varie sedute della Gufram come il Divano Bocca o Capitello (Studio65), che, seppur nascondano allusioni da trickster alla società dello spettacolo, da questa sono state poi catturate, masticate e rigettate come oggetti di lusso inaccessibili ai più. Qui alludo, invece, a una serie di giochi per bambini che Enzo Mari realizza prima in legno e poi proprio in poliuretano come Sedici Animali, Gioco delle favole (1957) e Living (1976). Quest’ultimo nasce in risposta a un concorso che chiedeva di ragionare sul tema dell’abitare e consiste in otto gruppi di dieci carte di colori diversi: il primo gruppo definisce la professione del padrone di casa, il secondo il tipo di abitazione (le possibilità andavano da ville a barconi), poi la città e quali infrastrutture circondano la casa (un teatro, un supermarket, una ferrovia). E ancora, quali sono le amicizie del padrone di casa e il suo oggetto del desiderio: tutti elementi che, secondo Mari, avrebbero aiutato i bambini a pensare l’abitare in relazione alle condizioni materiali e sociali che lo determinano e lo informano: «Una delle prime cose stupide che vengono insegnate nelle scuole è che i progetti si fanno sulla base della teoria. Ma quando si legge la Storia della scienza e la Storia dell’arte si vede che i progetti nascono sempre da una scoperta […] La funzione del gioco è quella di mettere i bambini nella condizione della scoperta»[10].
Invitato da Stefano Boeri, Mari proporrà Living a una classe di architettura del Politecnico di Milano, per spingere gli studenti, nella progettazione, a «pensare alle persone vere e non a statistiche astratte e banali: la classe media, la classe operaia, quelli che guadagnano un milione di sterline al mese rispetto a quelli che ne guadagnano solo cinque». «Pensare alla realtà dei rapporti umani»[11]: per il designer solo tenendo in considerazione queste variabili si possono tentare soluzioni che rendano giustizia alla vita delle persone. «Il gioco come organo della profanazione è ovunque in decadenza» scriverà Agamben nel 2005 concludendo che «restituire il gioco alla sua vocazione puramente profana è un compito politico»[12]. In Profanazioni il filosofo italiano traccia, prima nei riti religiosi del sacro, poi nel consumo, un’impossibilità di usare l’oggetto-feticcio, che lo rende improfanabile ovvero impossibile da restituire all’uso comune, quello degli uomini. Lo stesso discorso può essere applicato al “consumo” dello spazio urbano, che rende le metropoli feticci e vetrine disponibili a un turismo di massa omologante, e che ha relegato città come Milano, Parigi, Venezia a un’identità monodica, quella più vendibile, nascondendo ogni forma di pluralità. Sacrilego, per Agamben, era ogni atto che violava questa indisponibilità.
La curatrice Maria Carla Forina, pertanto, assimila queste pratiche al modello parassitario della biologia, ispirata dal P.A.R.A.S.I.T.E Museum of Contemporary Art di Tadej Pogačar (Lubiania, 1960)[13]: una «forma di colonizzazione temporanea», che «occupava per un certo lasso di tempo istituzioni che incarnavano narrazioni dominanti e normative»[14], dove burla e performatività mostravano modalità inedite di relazionarsi da una parte con i paradigmi del museo modernista, e, sull’altro polo, con le costrizioni ed esclusioni sistemiche degli spazi pubblici. «Applicando questo allo spazio urbano contemporaneo, consideriamo parassitarie tutte quelle strategie abitative di resistenza dal basso e le pratiche sociali e comunitarie di sovversione che agiscono sul funzionamento dell’organismo-città alterandone lo stato immanente»[15] spiega Forina.
Per tracciare queste pratiche di parassitismo urbano non serve neanche guardare troppo lontano, ai libri dell’arte, motivo per cui ho deciso di esimermi, in questo testo, dal tracciare già ovvi storicismi che ci rimanderebbero, per esempio, a “If You Lived Here…” di Martha Rosler o a paraSITE di Michael Rakowitz. Il mio invito è quello di uscire dagli spazi dell’ex Teatro Ringhiera e percorrere a ritroso la linea del tre che ci riporta al centro, fino in Piazza Ventiquattro Maggio; guardare a destra e sinistra, sotto i lunghi e nevrotici portici, agli ingressi delle banche, alla ricerca di arrangiamenti di tende e funi tirate, materassi e coperte ammassate, che nascono direttamente dal disagio abitativo. E ancora, ricomporre il percorso di Isola Art Center a Milano, dei Blocchi Metropolitani a Roma, e delle banlieue parigine. Ostile chiede di domandare e ripartire da queste storie, per un’urbanistica di ricerca, basata sulle condizioni materiali e spirituali di tutti gli abitanti delle città, sull’esperienza vissuta; che consideri, insomma, “come vive la maggior parte della gente”.
Alessia Baranello
Info:
ZUMMAUT; Ostile
4.02.23-19.02.23
a cura di Maria Carla Forina
Spazi Ex Teatro Ringhiera
via Pietro Boifava 17, 20142, Milano
[1]L. Semerani, A. Gallo, Lina Bo Bardi. Il diritto al brutto e il SESC-Fàbrica da Pompéia. Edizione illustrata, Napoli: Clean Edizioni, 2012.
[2] Dal comunicato stampa di Ostile
[3] “Nel cammino dal centro alla periferia ho provato a lasciare alle spalle “l’eccesso” causato dalla moltiplicazione delle immagini (dei suoni, degli odori, delle persone…) per avvicinarmi lentamente ad una realtà più rarefatta. Un percorso che, verso la periferia, mi ha fatto scoprire momenti di rara bellezza, legati alla sorpresa: vedere cioè come i cosiddetti “non luoghi” (spazi che il sistema non aveva ancora reso “efficienti”) fossero invece spazi disponibili dal punto di vista fisico e mentale, luoghi con la possibilità di sviluppare creatività” (U. La Pietra, Istruzioni per abitare la città, Clac e Viaindustriae publishing, 2018, p. 31)
[4] S. Rossetti, ZUMMAUT, il collettivo di designer che riflette sull’architettura ostile, 3 febbraio 2023, www.artribune.com/progettazione/design
[5] New Habits è il nome che il collettivo ha dato alla ricerca, portata avanti ormai da due anni, sul tema dell’abitare.
[6]https://zummaut.com
[7] A. Staid, Abitare illegale, Milieu edizioni, Milano 2017
[8] “Queste zone abitate formalmente e informalmente per molti anni da classi povere sono state sottoposte a un restauro e a un miglioramento urbano, non per chi già ci viveva ma per far affluire nuovi abitanti ad alto reddito per poi espellere i vecchi abitanti a basso reddito, i quali con l’innalzamento dei prezzi non possono più permettersi di risiedervi” (A. Staid, Abitare illegale, Milano: Milieu edizioni, 2017, p. 32)
[9] Walter Benjamin, Asja Lacis, Napoli porosa, a cura di E. Cicchini, Dante & Descartes, 2020.
[10] (a cura di) H. U. Obrist, F. Giacomelli, Enzo Mari curated by Hans Ulrich Obrist con Francesca Giacomelli [catalogo della mostra], Milano: Electa, 2020, pp. 52-53
[11] ivi., pp. 54-55
[12] G. Agamben, Elogio della profanazione in Profanazione, Roma: Edizioni Nottetempo, 2005, pp. 87-88, https://www.sguardisulledifferenze.eu/wordpress2/wp-content/uploads/2017/03/G.-Agamben-Elogio-della-profanazione.pdf
[13] Tadej Pogačar è un artista, scrittore, curatore ed educatore sloveno che comincia a operare negli anni Novanta nella ex-Jugoslavia. Basa la sua pratica su un’arte relazionale, che investighi con interventi urbani e partecipativi problemi sociali, politici e culturali, che interessano specialmente il suo paese d’origine.
[14] Baranello, M. C. Forina, Istruzioni per un Nuovo Parassitismo. Pratiche artistiche e curatoriali che ripensano le istituzioni museali, in Machina, 7 gennaio 2022, https://www.machina-deriveapprodi.com/post/istruzioni-per-un-nuovo-parassitismo
[15] Dalle conversazioni con la curatrice Maria Carla Forina
Alessia Baranello (Campobasso, 1998) è una curatrice indipendente. La sua ricerca si concentra sul legame tra arti visive e questioni storiche, sociali ed economiche, con un’attenzione verso pratiche espositive sperimentali. Scrive di arte contemporanea, cultural e memory studies. È stata co-curatrice della residenza per artisti Uva Programme (Nizza Monferrato, luglio 2022) ed è co-fondatrice del duo curatoriale Scania Trasporti.
NO COMMENT