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Sulla fotografia: in conversazione con Carlo Sala

Sulla fotografia: in conversazione con Carlo Sala

“How Many Landscapes?” è il titolo dell’ultimo progetto espositivo a cura di Carlo Sala, visitabile a Verona dal 16 ottobre al 12 dicembre 2021, presso la sede di Fondazione Cariverona. La mostra è un’iniziativa della Fondazione, in collaborazione con Urbs Picta e la direzione artistica di Jessica Bianchera.  Carlo Sala (Treviso, 1984), critico d’arte e curatore, insegna al Master IUAV in Photography a Venezia. Tra le attività di Sala si distinguono: la direzione artistica di Photo Open Up – Festival internazionale di Fotografia promosso dal comune di Padova, la curatela scientifica del Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee e del Festival F4 / un’idea di Fotografia.

Eleonora Reffo: La mostra “How Many Landscapes?” parte da un corpus importante di opere del noto fotografo italiano Gabriele Basilico, di proprietà della Fondazione Cariverona, e propone una serie di riflessioni sulla relazione tra fotografia e paesaggio. La fotografia risulta ancora strumento di analisi di un territorio?
Carlo Sala: La fotografia ha ancora una relazione molto forte con il paesaggio, ma secondo una serie di paradigmi evolutivi che si sono modificati nel tempo. Il punto di partenza della mostra è Gabriele Basilico, per poi dipanarsi attraverso otto visioni che presentano una pluralità di modi di concepire la relazione tra immagine e paesaggio. Ci sono autori come Paola De Pietri e Jacopo Valentini, per citare due nomi appartenenti a generazioni molto diverse, che mantengono una relazione con il reale; Davide Tranchina crea invece dei paesaggi immaginari; Silvia Mariotti e Alberto Sinigaglia  ragionano su immaginario e sublime contemporaneo; Francesco Jodice e Filippo Minelli relazionano i territori alle questioni sociali e  geopolitiche; fino alle opere di Alessandro Sambini che propongono delle immagini generate dall’intelligenza artificiale. La domanda retorica nel titolo cita una pluralità di visioni sul paesaggio che vanno dal nostro sguardo retinico o quello artificiale. Oggi chi racconta il paesaggio deve lavorare soprattutto sulla percezione e ogni metodo di trasmissione delle immagini può mutare la relazione e la comprensione di quest’ultimo.

Camminiamo per strada e incontriamo immagini create al computer che simulano perfettamente la realtà. L’immagine risulta essere strumentalizzata, oggetto di promozione, non più oggetto esplicativo. Ricreare la fotografia nello spazio digitale è post-fotografia?
Una delle prime definizioni di fotografia si riferiva a uno specchio dotato di memoria, questo ci fa intuire che agli albori lo si riteneva uno strumento assolutamente oggettivo volto a comprendere i fenomeni. I primi usi erano nell’ambito delle scienze esatte e non in quello delle visioni artistiche. Nel mondo della post-fotografia, sappiamo che le immagini possono mentire ed essere soggette a processi di manipolazione formale, ma soprattutto di senso. Mi colloco tra coloro che sostengono che le immagini siano l’ultima frontiera della biopolitica, perché sono capaci di connotare il nostro agire nella società condizionando gli acquisti, le scelte politiche e perfino i sentimenti. Oggi l’immagine è un elemento liquido, metamorfico; pertanto, a seconda del tagging e dei canali di ricezione, questa può subire delle sovrastrutture di significato forti e mutare. Compito degli artisti è tentare di decostruire questi processi e renderli evidenti. Come sostiene Georges Didi-Huberman le immagini sono oggetti sovradeterminati. Penso che un approccio teso alla complessità delle immagini ci aiuterebbe a comprendere meglio non solo i fenomeni visivi, ma anche sociali e culturali. Avere buoni anticorpi per capire i messaggi dietro alla comunicazione visiva ci aiuterebbe a essere cittadini più emancipati.

 Il tuo ultimo libro edito da Silvana è “Stati di tensione. Conversazioni su immagine, società e politica”. In passato hai definito il ruolo del curatore come quello di “traghettatore”, in che termini lo hai ricoperto nella realizzazione del libro?
Il libro nasce in seguito alla richiesta di rileggere, a livello curatoriale, le collezioni di una grande istituzione come il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo: la più importante collezione italiana di fotografia, con quasi due milioni di opere, per generarne una mostra. Ho sentito l’esigenza di chiedermi quale fosse il ruolo del curatore nella relazione con un patrimonio del genere e con il museo come attivatore sociale, considerando le opere d’arte in chiave dialogica con la storia. Ho iniziato a tenere degli studio visit interrogando i vari autori su quale fosse la funzione politica dell’immagine oggi, a partire dalla loro pratica.  Con Francesco Jodice abbiamo ragionato sulla relazione tra immagine e geopolitiche internazionali; con Lisetta Carmi su come l’arte può dare voce a chi non ce l’ha; con Letizia Battaglia abbiamo parlato dello splendore e delle contraddizioni della Palermo dominata dal fenomeno mafioso; con Mario Cresci abbiamo ragionato su come i processi legati all’azione fotografica in certi territori debbano avere una relazione molto forte con la comunità e non risultare atti di pura appropriazione.

Cosa caratterizza le più giovani generazioni di fotografi in Italia?
Oggi le giovani generazioni di fotografi hanno una pluralità di modi per esprimersi. Ciò che però connota questa generazione, a prescindere della resa apparentemente formale, è la consapevolezza comune del potenziale che hanno le immagini e del loro statuto non neutrale. Autori che studiano e riflettono, attraverso la loro opera, come l’immagine viene realizzata, recepita e fruita dalle persone.

Sei docente al Master in Photography dellUniversità IUAV di Venezia. Un consiglio a una giovane curatrice o curatore?
La disciplina stessa in cui noi agiamo è profondamente mutata e spesso si è convinti che una formazione interna al sistema sia sufficiente. Agire da curatore oggi significa essere un “sismografo” di quello che succede nella società. Il mio consiglio è di avere una profonda relazione con il mondo dell’arte, ma ricordarsi che è necessaria una visione connaturata da una interdisciplinarità di pensiero e quindi avere una flessibilità mentale nel mettere in relazione più campi del sapere. Il curatore non deve sapere tutto, ma, spogliandosi della soggettività del proprio ego, riuscire ad avere dei profondi dialoghi con gli altri studiosi e la comunità entro cui agisce.

Filippo Minelli, Shape US A/Q’, 2014, stampa fine art su carta hahnemühle, cm 80 x 120, Courtesy Ruttkowski;68, Cologne – Paris

Alberto Sinigaglia, Vanishing Sublime, 2021, 220 x180 cm, stampa ad aerografo su cotone chroma key, supporto: stativi e barra in metallo nero, Courtesy MLZ Art Dep, Trieste

Francesco Jodice, Venezia. The Precursors Legacy, #004, 2013, Courtesy Fondazione Cariverona


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