Attivare una ricerca d’evasione, ri-imparare i processi critici, svincolare gli spazi dalla loro canonica funzione. Al centro di questa conversazione con Giulia Colletti si trovano questi e altri temi. Giulia Colletti è una curatrice la cui ricerca s’incentra su teorie femministe e pratiche di disapprendimento. Nel 2017, ha formalizzato Falte, progetto curatoriale che sperimenta attraverso le forme performative e partecipative dell’arte contemporanea. Le iterazioni di Falte sono state recentemente ospitate da Art and Cultural Studies Laboratory a Erevan, Pandeo a Città del Messico, e dal //BuzzCut// Festival 2017 di Glasgow.
Dario Moalli: Vorrei iniziare dal principio, chiedendoti della tua ricerca curatoriale e di come tu sia giunta a quello che puoi considerare il tuo modus operandi.
Giulia Colletti: Personalmente curatela non designa nient’altro che una spropositata curiosità. Non riuscendo a canalizzarla in alcun dominio specifico, la esprimo nelle forme di produzione dell’arte contemporanea. E spesso trovo anche quest’ultime limitanti. La formazione storico-artistica dalla quale provengo ha instillato in me un interesse nel leggere ogni accadimento su lungo termine; ma mi ha anche indotto a evitare la cristallizzazione di un’opera d’arte in una narrazione cronologica, prediligendole piuttosto una visione dialettica.
D.M.: Chi e cosa ti ha influenzato e, soprattutto, quali esposizioni e testi ti hanno lasciato un segno?
G.C.: Uno dei testi maggiormente attinenti alla forma di pensiero di cui ti parlo è forse Discours Antillais (1981) di Édouard Glissant. Il poeta di origini martinicane si oppone al fare totalizzante tipico del pensiero occidentale, rivendicando l’errore, l’incertezza, e la ridondanza come modalità operative. In breve, un’attitudine che muove da costellazioni di accadimenti che non devono per forza essere compresi dalla cultura dominante per esserne accettati. La mostra che forse più di altre rivela tale attitudine è Rinascimento, una mostra personale dell’artista Adrian Villar Rojas, presentata nel 2016 alla Fondazione Sandretto. L’artista argentino non solo ha prodotto un0 installazione in cui archeologia e apocalisse convivevano senza alcun impedimento narrativo, ma l’intero processo di produzione è stato innestato su alcune botteghe italiane, con le quali Villar Rojas ha realizzato la sua opera. Un gesto di sincretismo artistico difficile da imitare. Pochi lavori si sono per me rivelati così rilevanti. Probabilmente il più recente è Protocol no.90/6 del duo Masbedo, installazione commissionata da Manifesta12 e realizzata all’interno dell’archivio di Stato di Palermo. Una narrazione sulla vita professionale di Vittorio De Seta, in bilico tra faldoni giuridici fossilizzati e la struggente mimica di un pupo animato da Mimmo Cuticchio.
D.M.: Quali sono le tematiche e problematiche più urgenti nel Paese in cui ora risiedi?
G.C.: Nel Regno Unito, così come altrove, è piuttosto vibrante il dibattito sulla decolonizzazione dell’istituzione d’arte. In particolare a Glasgow, la controversia si è fatta più accesa quando di recente Creative Scotland non ha confermato il suo supporto ad istituzioni che hanno segnato la realtà inclusiva della città, come Transmission Gallery, giusto per far un esempio. Entità come questa diffondono quella estetica DIY a cui ho attinto fin da subito in Scozia. Mi domando quale sia la situazione in una grande città come Milano, nella quale invece tu ti sei trasferito.
D.M.: Su Milano mi interrogo spesso; vivendoci è difficile capire come la sua potenzialità sia effettivamente percepita dall’esterno. Sicuramente esiste un ambiente più dinamico che altrove. Nell’ultimo periodo abbiamo assistito ad una vera e propria fioritura di spazi indipendenti, che spesso hanno proposto temi e artisti tenuti in poca considerazione dalle istituzioni maggiori; a oggi sono più di una decina, (Current, Mars, Fantaspazio, Tile Project, Il Colorificio, Mega, Open Box, Marselleria, T-space, Dimora Artica, Workbench, Armada, e altri) tutti molto diversi l’un l’altro e inseriti in contesti periferici. Questa volontà di autodeterminarsi in un contesto incerto, a causa delle difficoltà economiche, ha prodotto un’ondata di mostre, performance e dibattiti. Questo sviluppo ha reso Milano maggiormente internazionale, e se è vero che il sistema è trainato da grandi gallerie e istituzioni, il fatto che alla base ci sia un terreno sperimentale dà garanzie di un futuro ancora più interessante. A parte Venezia e Londra, la tua ricerca ti ha portato al di fuori dei canonici centri dell’arte contemporanea, che differenze hai notato?
G.C.: Quando inizi a operare in aree geograficamente e culturalmente liminari, non solo in Europa ma anche al di fuori, ti rendi conto che il dibattito contemporaneo si svolge in spazi “autonomi”. Autonomi perché, pur avendo una forte consapevolezza della scena artistica, se ne dissociano in termini di ricerca. Se da un lato ho assistito a casi politicamente degni di nota – penso a Budapest, dove l’ostruzionismo di destra ha scatenato una controffensiva del settore indipendente, coagulatasi nell’OFF Biennale – dall’altro persiste un individualismo del fare, e dell’affermare, la propria pratica. Chiaramente questo soffoca sinergie necessarie, in luoghi in cui il supporto reciproco è linfa di sostentamento e ragione d’essere per il settore. In questo senso, la mia recente esperienza di ricerca a Erevan, mi ha particolarmente segnata. A pochi giorni dalla Rivoluzione di Velluto, in un clima di positiva rigenerazione, il ristretto settore dell’arte contemporanea locale è stato invitato dal nuovo governo a presentare un piano d’azione e di supporto alle piccole entità culturali autonome sparse nel territorio. Il fronte comune che avevo registrato durante i giorni delle manifestazioni si è sgretolato sotto il peso dell’individualismo e dell’autopromozione.
D.M.: Una delle caratteristiche più pronunciate del nostro periodo storico sembra il mal celato individualismo. Attualmente non vedo riproporsi, anche in forme diverse, esperienze come ad esempio la Cybernetic Culture Research Unit dell’Università di Warwick. Forse la nostra generazione ha prodotto una contro-cultura troppo debole, troppo (an)estetizzata e per questo velocemente assorbita dal sistema. Tuttavia, spetta a noi riuscire a ripensare un futuro che non preveda l’attuale assetto economico-sociale e culturale. Ci troviamo all’interno di un paradossale compromesso per cui, come asserisce Alain Badiou, «la nostra democrazia non sarà perfetta, ma è meglio di una dittatura truculenta. Il capitalismo è ingiusto, d’accordo, ma non è criminale come lo stalinismo. […] Uccidiamo iracheni con le nostre bombe, ma non tagliamo le gole come in Ruanda»[1]. Non mi è chiaro se il nostro agire è la causa di questa impasse o se in realtà ne subiamo solo le conseguenze. I social media ci impongono di sorridere, di essere sempre al massimo, di esprimere gioia. Il marketing delle emozioni ha corrotto la nostra capacità di disapprovare un sistema strutturalmente sbagliato. A quanto pare, però, «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo»[2].
G.C.: L’eredità della CCRU di Warwick non è andata perduta. Si trattava di una pratica “fuggitiva”[3] che, partendo dalla cultura cibernetica, ha di fatto spianato la strada a due filoni politico-filosofici come il realismo speculativo e l’accelerazionismo. Potrei sbagliarmi, ma traduco la modalità operativa semiclandestina di questo gruppo nella pratica degli Undercommons, teorizzata da Fred Moten e Stefano Harney. Più in generale, esistono realtà che giocano una partita diversa, puntata su educazione autonoma e progettualità condivisa, mantenendo sempre alta la qualità. Nel nostro settore, mi sento di menzionare CLOG Projects (Torino) e Casco Art Institute (Utrecht). Si tratta di casi che denotano risolutezza nel perseguire un processo di (auto)formazione ed educazione al cambiamento che non passi forzatamente dai canonici centri di istruzione, ma che ritorni all’ ‘università’, nel suo senso letterale di ‘comunità’.
D.M.: Tu come agisci in questo contesto?
G.C.: Nella pratica personale, posso dirti che ho preso spunto dagli scritti di Fred Moten e Stefano Harney. In particolare, l’ho fatto per Knots of Resistance, progetto co-prodotto con l’artista Ross Little che si è tradotto in un film e una pubblicazione. Durante la residenza di ricerca presso The Art and Cultural Studies Lab (Erevan), abbiamo provato a ri-tracciare la nozione di ‘resistenza’, intesa come rifiuto della globale impasse politica attraverso azioni come il parlare, il camminare[4], il danzare, ma anche il soffrire insieme. Tutte queste azioni stabiliscono già di per sé forme di conoscenza, germinanti negli interstizi che l’odierno assetto economico non è ancora riuscito a saturare. Mentre investigavamo, siamo venuti a conoscenza degli scritti di André Lepecki su Coreopolitica e Coreopolizia. Lepecki rilegge le osservazioni contenute in Che Cos’è la Politica? di Hannah Arendt in chiave performativa, concentrandosi in particolar modo sulla affermazione: «non siamo ancora arrivati al punto di saper muoverci politicamente»[5]. Con questo, Arendt non intende il mero movimento fisico all’interno di una protesta, bensì tutto quell’apparato di azioni e critica che ci permette di acquisire la piena libertà di individui in una comunità.
D.M.: Come si può quindi interpretare questo concetto di movimento politico?
G.C.: Muoversi politicamente si traduce nel saper immaginare un futuro altro. Sono in gioco costante impegno e azione intersoggettiva, la quale deve essere imparata, sperimentata, accresciuta e riconfermata giorno per giorno. E soprattutto, come sottolinea il collettivo xenofemminista Laboria Cuboniks, sebbene la politica occorra in forma locale, essa non può e non deve operare isolatamente. Viviamo una contemporaneità che richiede al nostro gesto politico la capacità di sapersi muovere tra la realtà locale e quella globale, costruendo vettori di connettività tra le due forme. Brian Kuan Wood asserisce che siamo noi stessi i referenti e destinatari delle nostre richieste politiche. Tuttavia, negli ultimi tempi abbiamo assistito a un «bellissimo capovolgimento negativo»[6] di quelle che sono comunemente considerate le forze più positive dell’universo, l’amore e la cura. Ciò ci spinge a concepire la pienezza dell’amore e la sua infinita generosità come basata sulla perdita reciproca. Ovvero, spandiamo tanto amore e cura quanto più ci sentiamo indebitati con l’altro. Diventa quindi chiaro come l’amore si traduca in termini economici in un’unione basata sul debito reciproco. Quando il debito è saldato, l’unione si dissolve.
D.M.: Quanto e come queste idee riescono a entrare in circolo e contaminare, incrinare o migliorare il sistema? Penso, ad esempio, a Silk Road, demonizzata, presentata in modo opposto a quelli che erano i suoi valori e ideali, poi successivamente fatta chiudere attraverso indagini non del tutto legali prendendo di mira un capro espiatorio. Così come ai bitcoin diventati mero oggetto di speculazione come altri titoli azionari.
G.C.: L’unico modo in cui un progetto di cambiamento non rimanga sussunto all’interno del sistema dominante, è di mantenerlo in una forma fluida tale che gli permetta di sfuggire al ciclo di appropriazione tipico del capitalismo. Perfluidità non si deve però intendere flessibilità. Se si fa riferimento a Il Nuovo Spirito del Capitalismo, ci si rende conto di come l’errore della sinistra francese sessantottina si sia dispiegato proprio al passaggio storico-politico da sistemi lavorativi rigidamente strutturati alle corporate policies degli anni ’70, tese a integrare principi progressisti, quali l’iniziativa, l’autonomia e il totale coinvolgimento del lavoratore, all’interno dell’azienda. Luc Boltanski afferma che lo «spirito del capitalismo non possa generarsi a partire dalle sue sole risorse: ha bisogno dei suoi nemici, di quelli che indigna e gli si oppongono, per trovare i fondamenti morali che gli mancano e incorporare alcuni dispositivi di giustizia dei quali, altrimenti, non avrebbe alcun motivo di riconoscere la pertinenza.»[7] Si tratta di una strategia che rende complice qualunque forma di critica sociale, figuriamoci quella artistica. Tolte le considerazioni finanziarie – per le quali mi appello a professionisti del settore – e iperbolizzando la mia provocazione, il bitcoin è un buon esempio di ciò che intendo: non è controllato da alcuna autorità centrale e ha una volatilità tale da essere un gioco ancora troppo poco sistematizzato dalle grandi banche, alcune delle quali ne hanno recentemente vietato gli acquisti tramite carte di credito.
Dario Moalli
[1] Badiou, A. (2016). Il Nostro Male Viene da Più Lontano. Einaudi: Torino.
[2] Frase attribuita a Frédéric Jameson e Slavoj Žižek
[3] Moten, F., and S. Harney (2013). The Undercommons: Fugitive Planning & Black Study. Brooklyn: Autonomedia.
[4] Cfr. il progetto Ontological Walkscapes dell’artista Karen Andreassian
[5] Lepecki, A. (2013). Choreopolice and Choreopolitics: Or, the Task of the Dancer. TDR/The Drama Review, Volume 57 (Issue 4),13-27.
[6] Wood Kuan, B.,(2014). Is it Love?. E-flux Journal #53
[7] L. Boltanski, E. Chiapello, The New Spirit of Capitalism, Verso, London 2005, p. 197
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