Il TFAM, ovvero il Taipei Fine Arts Museum, è stato inaugurato nel 1983 e dispone di un organico composto da centoventicinque membri che si occupano di ricerca, organizzazione mostre, raccolta e conservazione delle opere, istruzione, marketing e così via. La sua collezione vanta circa 5mila opere, a testimonianza degli sviluppi della comunità artistica di Taiwan, dal periodo della dominazione giapponese fino ai giorni nostri. La missione del Museo è quella di promuovere la conservazione, la ricerca, lo sviluppo e la divulgazione dell’arte moderna e contemporanea di Taiwan, favorendo gli scambi e incoraggiando la comprensione e la partecipazione del pubblico anche non specializzato. In questo senso la stessa partecipazione alla Biennale di Venezia da parte degli artisti di Taiwan (nello storico Palazzo delle Prigioni), l’organizzazione della Biennale di Taipei e dei Taipei Arts Awards sono tre precisi segnali di questa volontà di affermazione, segnali che vanno inseriti in un’ottica globale e di ampliamento degli orizzonti culturali.
Ora, proprio in questa ottica di attività a trecentosessanta gradi il museo ospita, nei vari piani dell’edificio, numerose mostre, tra cui segnaliamo di sfuggita “The Soul Trembles” di Shiota Chibaru, mentre ci soffermiamo ad analizzare più da vicino una collettiva che mette a confronto autori di varia formazione, toccando il tema del confine dove l’uomo e la macchina, nell’età post-capitalista, tendono a confondersi e a diventare labili. Il titolo è: “Affect Machine: self-healing in the post-capitalist era”; gli autori coinvolti sono: John Akomfrah, Olafur Eliasson, Chen Hui-Chiao, Rebecca Horn, Lee Chang Ming, Chu Hao Pei, Cam Xanh, Chen Chen Yu.
Sarà anche una pura coincidenza, eppure questa mostra risulta davvero molto interessante, poiché a seguito dell’epidemia di Covid-19 è stato dimostrato (da un gruppo di ricercatori dell’USC di Los Angeles) che la fiducia nella tecnologia è aumentata, dal momento che i vari periodi di lockdown, costringendoci a fare affidamento alla rete e alle operazioni online, ha cambiato il nostro atteggiamento nei confronti della tecnologia, il che potrà incidere a lungo termine proprio sul modo in cui le persone interagiranno con le macchine. Peraltro, il distanziamento sociale, il lavoro da remoto, la didattica a distanza, ha già costretto molte persone e molte imprese ad adattarsi e a sperimentare una vita diversa (anche con ricadute psicologiche non sempre positive), sebbene in definitiva la principale conseguenza sembra essere un maggiore apprezzamento del ruolo della tecnologia per il nostro futuro.
In definitiva, partendo dall’assunto che la macchina è diventata una presenza quotidiana della nostra vita (dal computer, al robottino tagliaerba, dalla voce di Alexa, alla voce del navigatore, dal cellulare computerizzato agli smartwatch…), le “macchine” sono al centro delle opere degli artisti presenti in mostra.
Iniziamo da John Akomfrah, artista e regista britannico, che fa uso di un linguaggio multimediale dove diapositive e filmati si sovrappongono in un percorso a ritroso che tocca temi di denuncia come il passato coloniale, il cambiamento climatico, considerazioni sulla natura selvaggia, indagini sulle diverse migrazioni a livello globale. In questo caso la tecnologia viene piegata a denuncia socio-politica.
Sullo stesso modo di sentire troviamo le opere di Olafur Eliasson: vere e proprie strutture sperimentali e interdisciplinari, rivolte ai problemi del mondo d’oggidì, come quello dell’energia pulita e sostenibile. In questo senso la sua opera è di esempio a tutto il mondo, sia per i valori morali che incarna e sia per la ricerca che porta come valore aggiunto. Ovviamente la squadra di collaboratori che Eliasson ha messo insieme in anni e anni di lavoro non è aspetto secondario di quelli che sono i suoi più celebri interventi nei quattro angoli del mondo.
Poi troviamo Chen Hui-Chiao, che opera soprattutto attraverso l’installazione, traendo ispirazione da temi astrologici, mistici e letterari, sebbene il processo creativo sia del tutto giocato in termini di razionalità e di meticolosa costruzione. A seguire le installazioni performative e i congegni tecnologici di Rebecca Horn, che possiamo definire delle “classiche” estensioni corporali destinate a far decadere l’assunto “l’ornamento è delitto”.
Lee Chang Ming è un artista e fotografo di Singapore interessato ai temi dell’intimità, delle questioni di genere, dell’ambiente e del quotidiano. Siamo perciò in presenza di tematiche scomode legate all’uso soggettivo del guardare e al mezzo fotografico come strumento di registrazione, senza peraltro ipotizzare processi di manipolazione o di post-produzione.
Con Chu Hao Pei, artista visivo di Singapore, l’interesse è rivolto alle interrelazioni tra cultura e ambiente, cercando le connessioni fisiche, sociologiche ed emotive che l’uomo instaura con il paesaggio che lo circonda, sia esso selvaggio oppure antropizzato. Le opere mettono in luce ciò che è trascurato e accidentale, intrecciando i processi di impegno, documentazione e ricerca per esaminare la complessità della perdita e la possibilità di una rinascita, il tutto a causa di fallaci modelli culturali, politici, economici e sociali.
L’opera concreta e concettuale di Cam Xanh esplora le somiglianze visive tra la codifica biologica e quella informativa, spesso basandosi su testi e poesie sviluppate da precedenti performance, per assumere poi la forma di installazione, scultura, pittura, video. Le opere attingono molto dalla sua vita personale, pur rimanendo pienamente consapevoli del contesto geopolitico e storico nel quale si radicano, lasciando intravedere commenti politici e non solamente estetici.
Infine arriviamo a Chen Chen Yu, artista multimediale, il quale esamina il paesaggio per come viene codificato dalla digitalizzazione dilagante e dalla interattività tra uomo, merce e immagine. Lavorando con immagini in movimento, oggetti e installazioni, egli contrappone vari media, oscillando tra soggetto e spettacolo, proprio là dove i confini tra natura e cultura si assottigliano, diventando impercettibili.
In definitiva questa mostra, firmata da Yu-Chieh Li e Gladys Lin, attraverso la disposizione di opere d’arte immersive o multimediali, si rivela di grande attualità, perché nel far affiorare un intreccio pervasivo tra corpo e macchina ci fa meditare su un futuro post-pandemia.
Giuseppina Valdesserra
Info
AA.VV., Affect Machine: Self-healing in the Post-Capitalist Era
18/09/2021 – 19/12/2021
TFAM, gallerie EF
No.181, Sez. 3, Zhongshan N. Rd., Zhongshan Dist., Taipei City 10461,
Taiwan, ROC +886 2 25957656
info-tfam@mail.taipei.gov.tw
Vista dell’ingresso alla mostra Affect Machine: Self-healing in the Post-Capitalist Era, 2021. Courtesy of Taipei Fine Arts Museum
Chen Hui-Chiao, A Room with a View, 2018, mixed mediums (needles, thread, military cots, embroidered towels, basins, toothbrushes, toothpaste, steel cups), 16 pieces, 90 × 200 ×1 40 cm each. Courtesy of the artist and Taipei Fine Arts Museum
Chen Hui-Chiao, A Room with a View (partial), 2018, mixed mediums (needles, thread, military cots, embroidered towels, basins, toothbrushes, toothpaste, steel cups), 16 pieces, 90 × 200 × 140 cm each. Courtesy of the artist and Taipei Fine Arts Museum
Chen Chen Yu, Here Each Vibration Long Away (film still), 2021, 2-channel video, 60 minutes. Performer: Lazy Miu.ASMR, courtesy of the artist
John Akomfrah, The Airport, 2016, three channel HD colour video installation, 7.1 sound, 53 minutes. Courtesy of the artist and Taipei Fine Arts Museum
Chu Hao Pei and Lee Chang Ming, Beneath the Bodhi and Banyan, 2018, mixed mediums (expired film stock, digital prints, acrylic and aluminium boards, documents), dimensions variable. Courtesy of the artist and Taipei Fine Arts Museum
is a contemporary art magazine since 1980
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