La tecnica fotografica è stata un mezzo di indagine (e registrazione) della realtà che a partire dai primi goffi tentativi di inizio Ottocento si è via via evoluta in un processo che è riuscito ad annullare prima l’uso della lastra di vetro e poi l’uso della pellicola di celluloide su cui registrare l’immagine che successivamente si sarebbe dovuta stampare. Il balzo dall’analogico al digitale è stato un passaggio epocale che, successivamente, grazie all’uso di massa del telefono cellulare, ha permesso l’immissione di milioni di immagini all’interno di un circuito virtuale che mette in connessione, dialogo e scambio di informazioni le persone dai quattro angoli del mondo. Non sempre queste immagini sono pregnanti; spesso si tratta di una specie di album di ricordi che si apre e si rende pubblico o di un diario quotidiano che viene, per narcisismo ed esibizionismo, condiviso anche con persone mai direttamente conosciute. Molte volte sono immagini di piatti gustati in un ristorante o vedute di laghetti o fiori o nuvole o animali da compagnia, e con una certa saltuarietà ci troviamo pure di fronte a immagini più significative, come proteste di piazza o vernissage o eventi pubblici di varia natura. Questa premessa per dire che la fotografia, nata come tentativo di fissare rettangoli di realtà (paesaggi, nature morte, monumenti, persone, volti, e così via) ha poi spostato il suo baricentro verso altri aspetti di creatività, arrivando a piegare il mezzo (lo strumento e la stampa dell’immagine) a finalità che di documentaristico ormai hanno ben poco.
Ecco, allora, “Art of Illusion”, al Nelson-Atkins Museum of Art, soffermarsi proprio su questa dicotomia e sul quesito nodale: la fotografia ci restituisce sempre una verità inoppugnabile? La prima risposta che viene da dire, anche per la fotografia di reportage o per la street photography, è che ogni immagine è “vera” solo quando viene completata da una didascalia, nel senso che la sua forza espressiva è sì intrinseca ai contenuti registrati sulla carta stampata, ma il senso completo (il luogo e la data, innanzitutto) sono informazioni che possono essere completate solo con la scrittura. Ovviamente la mostra non si pone in quest’ottica e guarda a ben altre esperienze e, fissandosi sullo slogan “seeing is believing”, pensa piuttosto alle manipolazioni che è possibile effettuare in camera oscura o con i mezzi digitali, includendo una sequenza di lavori di autori altamente significativi, a partire dagli anni Settanta.
Questo interessante progetto espositivo cade sotto l’egida non solo della grande sperimentazione di inizio Novecento, pensiamo a Man Ray e Moholy-Nagy, ma anche di quelle ricerche astratte, più o meno famose portate avanti da autori come Jaroslav Rössler, Lotte Jacobi e Luigi Veronesi. Ricordiamo infine, a giusta premessa, il debito che il titolo di questa mostra ha nei confronti di sir Ernst Gombrich e al suo lodevole saggio: “Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione” (Phaidon, 1960). In quel testo fondamentale si afferma che l’artista non copia la realtà, piuttosto la interpreta, anche quando vuole riprodurla nella maniera più fedele possibile. In definiva, per argomentare con altre parole, la pittura è un’illusione perché ogni dipinto descrive l’illusione della realtà. E se si afferma che la pittura è una descrizione illusoria della realtà altrettanto si può dire della fotografia.
La mostra al Nelson-Atkins Museum include venticinque fotografi; alcuni famosissimi, altri meno, tutti però accomunati da questo fil rouge di creatività sperimentale che rende l’immagine sempre molto particolare e giammai repressa da una volontà puramente descrittiva. La mostra, organizzata dal Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City, viene supportata da Hall Family Foundation. Questi gli autori chiamati a partecipare al progetto: Thomas Barrow, Zeke Berman, Michael Bishop, Cortis & Sonderegger, Robert Cumming, Thomas Demand, John Divola, Liat Elbling, David Hockney, Graham Howe, Kenneth Josephson, Lilly McElroy, Jerry McMillan, Duane Michels, Arno Minkkinen, Abelardo Morell, Grant Mudford, Vik Muniz, John Pfahl, Marcia Resnick, Hiroshi Sugimoto, Michel Szulc-Krzyzanowski, Lew Thomas, Ruth Thorne-Thomsen e Rodrigo Valenzuela.
Ci soffermiamo ora sugli aspetti salienti di cinque autori perché ci permettono un ulteriore approfondimento su questa modalità di produrre artefatti ovvero di immagini costruite ad hoc o per lo meno non finalizzate a uno scopo descrittivo.
Iniziamo con Thomas Barrow (Kansas City, 1938), autentico rappresentante della controcultura degli anni Sessanta e che ha sperimentato svariate possibilità espressive extra-documentaristiche. La serie più famosa è quella denominata “Cancellations” (1974-1978): si tratta di fotografie in b/n di paesaggi o di banali edifici del sud-ovest statunitense, il cui negativo veniva biffato prima della stampa, dando così all’immagine stampata un triplo significato, quello di negazione/distruzione del soggetto ivi rappresentato, di autorizzazione alla stampa e di valore espressivo di tipo segnico e gestuale aggiunto al soggetto fotografato. A questo proposito valga il pensiero di William Klein: “Il filtro giusto, la pellicola giusta, la giusta esposizione non sono argomenti interessanti”, pensiero che si concluse con i Painted Contacts, ovvero con le immagini in b/n evidenziate da strisciate di colore rosso e giallo. Tuttavia, mi viene in mente anche un possibile collegamento con Gordon Matta-Clark, che nelle sue distruzioni di edifici architettonici ha elevato la poetica del disastro a substrato della contemporaneità.
Il secondo nome che prendiamo a riferimento è quello di Robert Cumming (Worcester, 1943), il quale appartiene alla corrente concettuale degli anni Sessanta e che relegare alla professione di fotografo è riduttivo visto che si autodefinisce anche pittore e scultore (ma lo stesso W.Klein non iniziò come pittore e allievo di Fernand Léger e fu anche cineasta?). Il suo lavoro è un chiaro esempio di come la fotografia sia a un certo punto diventata non più un processo di produzione di immagini a uso dei media, ma un mezzo da piegare al proprio pensiero. Con Cumming il disordine domestico diviene pretesto per la produzione creativa e direi che in questo senso ha anticipato anche il lavoro di Fischli & Weiss.
Passiamo a Thomas Demand (Monaco di Baviera, 1964), perché è sintomatico di una produzione artefatta, cioè di costruzioni ambientali complesse e molto elaborate (come modellini tridimensionali in scala 1:1) che poi concludono il loro percorso su stampe fotografiche di grandi dimensioni. Molti di questi modellini sono collegati a fatti rilevanti della nostra storia recente, come gli archivi di Leni Riefenstahl o il rifugio di Saddam Hussein a Tikrit. Come dire un set scenografico in cartone e legno che funge da soggetto per la sua successiva produzione fotografica; Hollywood all’ennesima potenza; la finzione artificiale come processo della fantasia.
Passiamo poi a Duane Michals (McKeesport, 1932), un autore entrato nel mito della creatività, visto che nel corso della sua proficua produzione ha adottato varie forme di manipolazione del linguaggio fotografico, quali la sequenza narrativa, le esposizioni multiple e le sovrimpressioni, gli interventi manuali di tipo pittorico e grafico. Il tutto per arrivare ai confini della Narrative Art, all’introspezione e all’intimità psicologica: valga per tutte la citazione, a mo’ di esempio, dell’opera “Magritte” del 1965, dove troviamo la traccia di tutti questi suoi caratteri stilistici.
Infine, arriviamo a Rodrigo Valenzuela (Santiago del Chile, 1982) il quale allestisce delle specie di finzioni ambientali (un po’ sulla falsariga del Merzbau di Schwitters o delle sculture di Nevelson) e che ha declinato in una decina di cicli fotografici: tutti rispondono però all’idea aggregativa dell’accumulo: da “Afterwork” a “Stature”, da “American-type” a “General Song”, da “Animitas” a “Trophy Room”.
Con questa analisi schematica, soffermandoci sul lavoro di cinque autori, possiamo concludere che, nel corso del Novecento, la strada verso la modernità è stata di nuovo praticata, sbloccando così quell’impasse generato da Cézanne, il quale si definiva “il primitivo di un’arte nuova”. Infine, mi pare giusto rimarcare come nel percorso di questa mostra, il futuro sembra di nuovo guardare con ottimismo alla linfa che dà vita all’opera, secondo una radice illuminista che permette la generazione di una pianta nuova.
Roberto Vidali
Info:
AA.VV. Art of Illusion. Photography and Perceptual Play
22.10.2021 – 25.4.2022
The Nelson-Atkins Museum of Art
4525 Oak Street
Kansas City, MO 64111
816-751-1278
ask@nelson-atkins.org
Kenneth Josephson, Wyoming, 1971. Gelatin silver print (printed ca. 1980), 12 x 7 15/16 inches. Gift of Hallmark Cards, Inc., 2005.27.1497, courtesy of The Nelson-Atkins Museum of Art
John Divola, from GAFB (George Air Force Base) “Dead Mirrors, A” 2015, stampa fotografica, 101, 6 x 114,3 cm, courtesy of the artist
Thomas F. Barrow, Tank, 1975. Gelatin silver print, 9 3/16 × 13 9/16 inches (23.34 × 34.45 cm). Gift of the Hall Family Foundation, 2017.44.1, courtesy of The Nelson-Atkins Museum of Art
Rodrigo Valenzuela, Afterwok #2, 2021, silver gelatin print, 30 x 42 cm, courtesy of the artist
Thomas Demand, Daily #25, 2015. Dye transfer print, 22 1/8 x 16 ½ inches. Gift of the Hall Family Foundation, 2017.61.8, courtesy of The Nelson-Atkins Museum of Art
È direttore editoriale di Juliet art magazine.
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