Un viaggio sciamanico alla riscoperta del legame che accomuna gli esseri viventi in un unico destino, un percorso interiore alla ricerca di una consapevolezza più profonda, un incitamento a perdersi per esplorare nuove connessioni di senso, un testo filosofico che invita alla contemplazione e alla libertà di pensiero e la sfida di asservire l’armamentario concettuale dell’arte ad una riflessione esistenziale. The Truth of the Labyrinth è un progetto di Maria Rebecca Ballestra in 9 tappe, concepito nel corso della sua recente residenza in Arizona incentrata sull’esperienza del selvaggio e ispirato ai testi dell’omonima raccolta dell’artista belga Julien Friedler. La prospettiva del viaggio, da sempre centrale nel lavoro di Ballestra come strumento per conoscere e relativizzare differenze culturali spesso all’origine dei violenti conflitti d’interessi che infiammano la nostra contemporaneità, diventa spunto per affrontare tematiche ancestrali come il linguaggio, la memoria, il sacro, la morte, il corpo, l’immaterialità e il soverchiante mistero della natura.
Accogliendo l’invito alla contemplazione di Friedler, secondo cui la percezione delle energie vive che sono che condizione necessaria per costituire una moderna mitologia fondata sull’arte, Ballestra trasforma la sua permanenza nel Deserto del Sonora in un itinerario dell’anima concettualizzato attraverso la simbologia del labirinto. La prima tappa racconta il suo immediato spaesamento di fronte alla Natura incontrollabile e imprevedibile, l’accettazione dell’impotenza e il superamento delle proprie barriere nell’incontro con il sacro che pervade ogni primordiale forme di vita. Un labirinto di spine dunque richiama i cactus che secondo gli indiani O’Odham custodiscono le anime degli antenati, un vortice di piume allude ai corvi imperiali che dall’alto avvertono gli orsi della possibile presenza di prede, mentre un circolare ghirigoro di parole rimanda al dedalo linguistico con cui l’uomo nomina le cose per districarsi dalla complessità dell’indifferenziazione originaria. Nella misura in cui la realtà viene organizzata in categorie precostituite diventa più fragile l’identificazione dell’essere umano con la natura: anziché riconoscersi parte di essa, l’uomo tende a porsi come soggetto che si relaziona con un altro da sé trasformato in oggetto delle sue azioni e pulsioni.
Percorrere il labirinto è iniziarsi verso il suo punto nero centrale, la Morte, e tornare ad essere Uno con il Divino in tutte le sue manifestazioni e attraversare i paesaggi dello spirito. Presupposto fondamentale è un radicale azzeramento delle sovrastrutture per riscoprire la terribile bellezza della Universo, quella bellezza decantata dal poeta John Robinson Jeffers che ridefinì la propria poetica “inumanesimo”. Inhumanism è quindi la parola che anche Maria Rebecca Ballestra incide su alcune pietre naturalmente levigate in un tacito monito a riflettere sulla transitorietà delle azioni umane di fronte alla persistenza di una Natura potente e distante. Sviluppando le implicazioni della metafora del labirinto ed esplorando i possibili approdi della filosofia naturalistica, la seconda tappa del progetto è incentrata sul labirinto virtuale delle informazioni telematiche. Assimilando la tecnologia digitale al sistema nervoso dell’uomo, entrambi incapaci di discernere tra simulacro e realtà quando collegano i dati a loro disposizione per costruire una rete di senso, l’artista costruisce una parete modulare di piastrelle che riproducono un diagramma delle sinapsi cerebrali associate ad alcune parole chiave. La connessione, perfetta nel proseguimento del motivo su ciascun modulo risulta in realtà interrotta dallo spazio che lo separa dagli altri, instillando il dubbio sulla sua reale efficacia nel generare una verità assoluta.
Dai labirinti si fecero affascinare anche Italo Calvino, Roland Barthes e Jorge Luis Borges e le lunghe conversazioni sull’argomento che intrattenne con loro hanno indotto Franco Maria Ricci a realizzarne uno di piante di bambù nel parco della Masone nei pressi di Fontanellato. Facendo omaggio a questa suggestiva opera architettonica naturale, Maria Rebecca Ballestra propone come tappa conclusiva della mostra il suo personale labirinto di bambù e parole. Alle canne di bambù, simbolo orientale di crescita spirituale per la perfezione del loro slancio verso l’alto, vengono associati alcuni frammenti del poema Sulla Natura di Parmenide di Elea e del testo La veritè du Labyrinte di Friedler e un video in cui Carl Gustav Jung disquisisce sul tema di Dio e della morte. Addentrandosi nella distinzione Parmenidea tra verità assoluta e opinione fallace e nel paradosso della negazione del mondo fenomenico e tangibile che implica, l’artista evoca il turbamento, la perplessità e la solitudine dell’uomo che forse non arriverà mai a comprendere pienamente la ciclicità della vita, l’immanenza del Divino nell’Universo e la sua eternità.
Maria Rebecca Ballestra e Julien Friedler, The truth of the labyrinth
5 settembre – 31 ottobre 2015
Galleria Spazio Testoni, Via D’Azeglio, 50 Bologna
Maria Rebecca Ballestra e Julien Friedler, The Truth of the Labyrinth, 2015
Maria Rebecca Ballestra e Julien Friedler, The Truth of the Labyrinth, 2015
Maria Rebecca Ballestra e Julien Friedler, The Truth of the Labyrinth, 2015
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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