Uno degli eventi espositivi di maggior richiamo del circuito Art&TheCity, il programma collaterale alla 19esima edizione di ArtVerona, è stato il week end inaugurale della mostra “TOMORROWS – A Land of Water”, un progetto di Fondazione Cariverona con Veronafiere S.p.A. – ArtVerona, Contemporanea – Università di Verona e Urbs Picta. La mostra, visitabile fino al 10 novembre 2024, è ubicata nel suggestivo fortino di origine medievale in cima a Colle San Pietro, uno dei punti panoramici più apprezzati della città scaligera per la vista mozzafiato sull’ansa del fiume Adige attraversata dal romano Ponte Pietra. Il progetto, che per il secondo anno consecutivo consente l’accesso a un luogo iconico altrimenti precluso al pubblico perché interessato da un cantiere di restauro decennale, nasce dalla duplice volontà della Fondazione di valorizzare i propri contenitori architettonici restituendoli alla cittadinanza e di innescare progetti di ricerca transdisciplinari in sinergia con la propria collezione in cui l’arte diventa strumento di riflessione su tematiche di stringente attualità universale. Se lo scorso anno con la mostra “Notes on the future of the Earth” il focus era la relazione tra arte e problematiche ambientali, l’argomento affrontato da questa seconda edizione del format “TOMORROWS” è la crisi idrica globale, considerata sia dal punto di vista ecologico, sia da quello delle dinamiche politiche e sociali a essa afferenti. In mostra troviamo i lavori di quattro artiste internazionali: DAVRA research collective (Saodat Ismailova, Madina Joldybek, Zumrad Mirzalieva), Lina Dib, Elena Mazzi e Alberta Whittle, accomunate dall’impegno politico quale motore primo delle loro ricerche e dal fatto di utilizzare, in varie accezioni, l’immagine in movimento come medium privilegiato.
Il percorso espositivo si apre con il video “The upcoming Polar Silk Road” (2021) di Elena Mazzi, esito di una sua recente residenza in Islanda volta a documentare la complessa intersezione tra economia, geopolitica, ecologia e circolazione commerciale che grava come pesante ipoteca sui destini della regione artica da quando lo scioglimento dei ghiacci causato dal surriscaldamento globale ha fatto balenare nuove ipotesi di sfruttamento di questi territori prima inaccessibili. Da anni le potenze mondiali stanno investendo miliardi per costruite avamposti, la maggior parte dei quali oggi ancora disabitati, che dovrebbero favorire la possibilità di insediamento in queste zone, nel cui sottosuolo si conserva il 20% delle risorse globali del pianeta, tra cui petrolio, gas, uranio, oro, platino e zinco. Il ritirarsi del ghiacciaio, oltre a rendere possibile l’avvio delle attività estrattive (con le immaginabili conseguenze su un ecosistema già in emergenza), ha suggerito il progetto della cosiddetta “Via Polare della Seta”, una rotta marittima alternativa in grado di connettere Europa, Russia e Cina in tempi notevolmente più brevi rispetto a quelli attuali. Nel video si susseguono senza soluzione di continuità immagini impeccabili del paesaggio artico, colto nel suo metafisico nitore, e riprese di interni altrettanto soprannaturali per l’astratta purezza delle forme e dei colori. Una suadente voce fuori campo racconta il luminoso avvenire del futuro hub commerciale al servizio del consumismo globalizzato, magnificandone i vantaggi in termini di occupazione locale, miglioramento della qualità della vita e collaborazione internazionale. La connotazione asettica e ambiguamente oggettiva delle parole amplifica l’utopia propagandistica insita in questa proposta di radicale stravolgimento del territorio, rivelando come, in realtà, la prospettiva dell’artista sia profondamente critica nei confronti di questo scempio annunciato e, più in generale, di un sistema globalizzato guidato dalla sola logica del profitto. A completare il video, un’installazione di documenti d’archivio e un arazzo, il cui impianto grafico è desunto da mappe cartografiche che mostrano il fitto intersecarsi di rotte navali attraverso i poli.
Il percorso prosegue nella sala dedicata all’installazione multimediale “Taming Women and Waters in Soviet Central Asia” (2024) del collettivo di ricerca DAVRA, per questo progetto rappresentato da Saodat Ismailova, Madina Joldybek e Zumrad Mirzalieva, con la collaborazione di Ruxsora Karimova per i ricami. Il gruppo è stato fondato da Saodat Ismailova, filmmaker e artista appartenente alla prima generazione uzbeka dell’era post-sovietica attualmente protagonista a Milano di una mostra al Pirelli HangarBicocca, come laboratorio permanente impegnato nell’analisi delle dinamiche relative allo sfruttamento coloniale e post-coloniale delle risorse naturali in Asia da una prospettiva femminile. L’installazione, presentata quest’anno alla Biennale di Praga, è qui riallestita in un’edizione trasformata nell’apparato iconografico e tessile. Il lavoro analizza il complesso rapporto tra il depauperamento delle risorse idriche e il lavoro femminile in Asia Centrale durante la Guerra fredda rievocando il caso emblematico della deviazione del fiume Syr Darya per favorire la monocoltura intensiva del cotone. L’imponente impresa, realizzata in soli quarantacinque giorni da migliaia di lavoratori assoldati dal regime sovietico, riconfigurò drammaticamente il rigoglioso paesaggio nei dintorni del lago Aral, trasformandolo in una distesa arida, e di conseguenza la vita delle popolazioni locali, a cui vennero precluse le tradizionali attività di coltivazione e di pesca. Una struttura ambientale in tessuto double face, allusivo nel colore e nella forma sinuosa al fiume deviato, ospita da un lato un collage di fotografie d’archivio in bianco e nero che ripercorre il processo di trasformazione territoriale indotto dai lavori nel contesto del regime e dall’altro alcune immagini che documentano e teatralizzano l’attuale fisionomia del letto del corso d’acqua ormai disidratato in alternanza a stoffe con ricami tradizionali rivisitati. L’opera, efficace nel condensare visivamente una molteplicità di sfaccettature (storiche, sociali, propagandistiche, economiche, ecologiche) in forma poetica, evidenzia la contraddittorietà del ruolo femminile nell’ambito di un’ideologia, come quello sovietica, che promuoveva l’emancipazione delle donne mostrando come fossero alternativamente impiegate come zappatrici al pari degli uomini e come danzatrici per intrattenere i colleghi maschi nei momenti di riposo.
Segue il film “Between a whisper and a cry” (2019) di Alberta Whittle, filmaker attivista nata nelle Antille e di base in Scozia, che nel suo lavoro riflette sugli effetti a lungo termine della colonizzazione sul suo territorio d’origine e sulle popolazioni che lo abitano, a partire dalla tratta degli schiavi che tra la fine del XVII e l’inizio del XIX secolo ne ridisegnò gli equilibri geopolitici con la deportazione di oltre 500.000 schiavi africani nelle proprietà francesi delle Americhe, principalmente nelle Antille. Visionario, animista, lirico e documentario al tempo stesso, il film associa gli effetti della crisi ambientale con quelli a lungo raggio della post-colonizzazione su popolazioni fragili che stanno ora vivendo una nuova stagione di migrazione. Una filastrocca popolare intonata in modo alterno da cori o solisti ripercorre le stagioni dell’anno scandite dall’abbattersi degli uragani, il cui incremento in frequenza e intensità nel sud del mondo è riconducibile al cambiamento climatico causato dalle aggressive dinamiche produttive attuate nell’emisfero ricco. I preparativi del paesaggio e dei suoi vulnerabili abitanti per fronteggiare lo scatenarsi mensile degli uragani diventa qui un rituale performativo a cui anche lo spettatore è invitato a partecipare seguendo specifiche istruzioni comportamentali e di respirazione che scorrono come sottotitoli, esplicito invito a un’assunzione attiva di responsabilità ripagata dalla compenetrazione con un’infinita e misteriosa bellezza.
Conclude questa sorta di viaggio iniziatico verso la consapevolezza del futuro che ci attende se non saremo in grado di imparare le lezioni del nostro passato e del nostro presente l’installazione audiovisiva interattiva “Threshold” (2017) di Lina Dib. Un orizzonte marino lungo dodici metri ci richiama da lontano con l’incanto del tramonto e l’invitante sciacquio delle onde che si infrangono a riva, ma non appena ci avviciniamo per immergerci appieno in questa liberatoria illusione, le onde anneriscono fino a evaporare, il loro movimento si arresta e un rumore sordo si sostituisce a quello a noi familiare. L’opera, parte di una serie più ampia di paesaggi tossici estetizzanti, nel suo tendere all’autodistruzione per reagire alla nostra presenza è una potente metafora dell’effetto umano sull’ecosistema terra, la cui immediatezza ci lascia senza possibilità di replica.
Info:
AA.VV. “TOMORROWS – A Land of Water”
11/10 – 10/11/2024
a cura di Jessica Bianchera e Marta Ferretti
Ingresso libero
Visite guidate gratuite il sabato e la domenica alle ore 10.00, 14.00 e 16.00
Castel San Pietro
Piazzale Castel San Pietro, Verona
www.artverona.it/tomorrows
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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