Nel linguaggio comune il verbo curare detiene una connotazione protettiva e rassicurante. Tuttavia, l’atto curativo può riferirsi unicamente alla conservazione, ma anche all’accettare le proprie ferite e disagi, fisici o emozionali, inflitti da situazioni esterne alla nostra volontà. Perciò, curare può spesso significare una ricerca di senso. Elisa Pinto, messicana, classe 1985 e attualmente studentessa ad HISK, fa del processo curativo, inteso nella sua accezione di ricerca, la vocazione della propria creazione artistica. Partendo da un vissuto personale riesce ad aprirsi all’universale, lavorando in bilico tra un forte impatto estetizzante e un nucleo più inquieto e sommerso, a tratti disturbante. Le sue decostruzioni geometriche e colorate sono state esposte per la prima volta in Italia lo scorso settembre, in occasione della collettiva “Forced to Abandon” presso la galleria A01 di Pomigliano d’Arco.
Sara Maietta: Mi piacerebbe iniziare la nostra chiacchierata partendo dal concetto di Chromatic Affirmations, titolo di una delle tue opere. Credo che sia il concetto sul quale basi, in generale, il tuo lavoro: affermare una visione della realtà tramite lo spettro cromatico e la forza vivida del colore. Giusto?
Elisa Pinto: Sì, sono particolarmente interessata al legame tra i colori e le emozioni. Ogni colore ha una diversa vibrazione che risuona in e su di noi. Per il lavoro Chromatic Affirmations ho tratto alcune immagini da vecchi manuali di medicina; ogni immagine è tagliata a laser. Tramite questa tecnica, ho “operato chirurgicamente” rimuovendo la malattia, mettendo a punto un personale gesto di cura. Il titolo di ogni immagine è, appunto, un’affermazione, e ciascuna di esse lavora nello specifico sul tipo di malattia rappresentata. Il volume in questione è “Heal your Life” di Louise L. Hay.
Se dovessi descrivere la tua ricerca attraverso tre parole chiave, quali sarebbero? E perché?
Innanzitutto, cura. Perché è collegata a mio padre, morto molto tempo fa a causa di un cancro. Ad esempio, lavorare sul progetto Mirror Diagnostic mi ha aiutata a scendere a patti con la sua assenza e la mia paura di ammalarmi. Poi, memorie. Alcune opere recenti si focalizzano sulla materializzazione di ricordi d’infanzia andati perduti, alla ricerca di una sensazione di pienezza e appartenenza. A dire il vero, sono interessata anche al rapporto psicologico ed emozionale delle persone con lo spazio. Infine, costruzione. Ho notato che il mio lavoro si presenta come un collage di materiali e media diversi: ogni opera è come se fosse solo un frammento di un tutto. Mi piace utilizzare materiali “da costruzione”, perché ho l’impressione che io abbia creato i frammenti della mia dimora. Mi piace anche pensare che noi stessi siamo delle entità in eterna costruzione.
Ecco, parli molto spesso della memoria: cosa rappresenta per te? È, a parer tuo, un concetto portatore di una forza curativa o, al contrario, si tratta di un’entità che può provocare problemi o disagi fisici/psicologici?
Ho iniziato a interessarmi al concetto di memoria quando ho letto della psicologa Julia Shaw, che ha provato a impiantare nelle persone dei falsi ricordi. Il suo metodo è molto semplice: chiede ai pazienti di immaginare un avvenimento, anche se mai realmente accaduto, convincendoli man mano ad aggiungere dei dettagli o dei frammenti a queste storie. Ripetendo questo esercizio di immaginazione, dopo circa due settimane i pazienti iniziano a dubitare se l’avvenimento sia reale o semplicemente inventato. A partire da questa stessa idea di “ripetizione”, ho iniziato a lavorare a sculture e lavori grafici. Per me, cercare di ricreare delle memorie perdute della mia infanzia, con mio padre, è un tentativo di costruirmi un rifugio mentale, una fortezza.
Uno degli aspetti più interessanti del tuo lavoro è il contrasto tra ciò che osserviamo – colori, geometrie, e design “allegri” – e gli argomenti di fondo che invece tratti. Come mai utilizzi l’estetica tipica del design? È un modo per “abbellire”, addolcire il trauma o per confondere lo spettatore?
Non mi sono mai dedicata volontariamente al design. Mi piace, ma non è mai stata mia intenzione sfruttarlo in maniera consapevole. Credo di essere giunta naturalmente a questo tipo di estetica. Tutta quest’aura colorata e di design ha anche una sua funzione concettuale, come ho mostrato ad esempio nel caso di Mirror Diagnostic. È anche un gioco di contrasti tra tematiche.
Potremmo dire che riscrivi i tuoi elementi di fragilità per diventare più forte, per dare un senso a situazioni dolorose altrimenti inspiegabili….
Sì, credo che in un certo senso si tratti di riscrivere degli elementi di fragilità per costruire una fortezza mentale.
Il tuo lavoro è dunque, prima di tutto, autobiografico. Quando si osservano le tue opere, si percepisce che tu ti stia rivolgendo a noi, anche se analizzi singole questioni a noi sconosciute, perché parte del tuo vissuto personale. Come credi che sia possibile?
Senza che me ne accorgessi, il mio lavoro si è mosso dall’interno vero l’esterno; in questo modo ho sì parlato di memorie personali, ma sono riuscita anche a trattare il contesto generale delle emozioni. Nonostante spesso i miei lavori siano astratti, credo che i materiali abbiano un linguaggio intrinseco e apparentemente nascosto che è invece capace di dialogare con lo spettatore, forse anche inconsapevolmente. Tramite le mie opere credo quindi di riuscire a fornire degli “indizi” che le persone possono ricollegare a un proprio significato o ricordo.
L’arte è quindi un processo curativo? Può essere allo stesso tempo personale ed universale?
Credo di sì. Per me è anzitutto personale ma, ad esempio, nel manuale di istruzioni Emotional Sculpture, ho provato a rendere questo processo catartico più aperto ed universale.
Quando non ti concentri sulla tua biografia, quali sono gli argomenti che preferisci decostruire e rappresentare attraverso la sperimentazione artistica?
Sono alla costante ricerca di verità spirituali e mi piace scoprire in che modo dai materiali o dalla combinazione fra questi possano scaturire sensazioni e significati. In generale, compio una ricerca incessante.
Il Covid ha impattato in maniera violenta sulla vita di tutti, e ha anche modificato le nostre esistenze in maniera talmente drastica che ad oggi molte persone devono fare i conti con nuovi disagi psicologici scaturiti dall’isolamento. Molti artisti, nonché numerose figure appartenenti al mondo dell’arte hanno provato (e stanno tentando tutt’ora) di espiare questi tempi difficili attraverso la pratica artistica. Anche per te la pandemia ha costituito un momento di sconforto? Hai lavorato su questo trauma? Cosa pensi al riguardo?
Fortunatamente, per me non è stato un grande problema, io e la mia famiglia siamo stati bene e lo siamo tutt’ora. Durante il primo lockdown in Belgio, però, mi sono sentita un po’ frustrata, perché non potevo nemmeno continuare a lavorare nel mio studio. Perciò ho lavorato al manuale “Emotional Sculpture”, in cui ho provato a rispondere e a reagire in maniera più completa ad alcune emozioni e sensazioni che mi trovavo ad affrontare in quell’istante.
Restando sempre in ambito pandemia: credi che la pratica artistica possa costituire una cura in questi tempi difficili? Esiste, secondo te, una cura universale?
Credo che sia un modo per sopportare e superare questi tempi difficili, ma può essere anche un esercizio di meditazione. Io credo che la terra in primis necessiti di essere curata. E probabilmente la pandemia è una parte di questo processo, spero ci faccia comprendere la realtà delle cose e che ci faccia risvegliare, diventare più coscienti.
Puoi darci qualche informazione sui tuoi progetti futuri? Quali fattori o elementi andrai a “curare”?
Sto ragionando sulle grandi installazioni, nello stile dei set televisivi, collegati al concetto di casa. Quindi tutto ciò che ha a che fare con l’abitare gli spazi, cosa che potrebbe condurmi a “curare” dei luoghi ben precisi. Continuerò anche a dipingere.
Sara Maietta
Info:
Elisa Pinto nel suo studio
Elisa Pinto, Chromatic Affirmations series. I choose to see all people and things with love and joy. Silkscreen on acrylic, acrylics of different colors and acrylic mirror cut with laser, 56 x 80 x 3cm. 2017. Photo by Juan Pablo de la Vega
Elisa Pinto, Chromatic Affirmations series. The movies in my mind are beautiful because I choose to do them that way. I love myself. Screen printing on acrylic and acrylics of different colors cut with laser, 75 x 60 x 3 cm, 2016
Elisa Pinto, känslomässig skulptur (Emotional sculpture), black & white printed manual, 21.5 x 28 cm, 2020
Elisa Pinto, Bedroom, copper pipes, acrilyc paint on pvc curtains, ceramic figure, briefcase and pillows, 210 cm x 577 cm x 538 cm, 2020. Installation at Netwerk Aalst, Belgium (Photos by Tom Callemin)
Elisa Pinto, Reconfiguration series. Houses, cement cast with felt, variable measures, 2019
Napoli, 1996. Si occupa di curatela artistica, con particolare attenzione agli artisti emergenti che trattano di critiche politiche e sociali. Laureata dapprima in Territoire et Patrimoine all’Université Paris Nanterre, si specializza in Management del Patrimonio Culturale alla Federico II di Napoli con una tesi analitica sull’ascesa e il declino del curatore d’arte contemporanea. Nel 2021 prende parte al corso N.I.C.E. di Paratissima. Credendo fermamente nel valore sociale dell’arte, ha collaborato con diverse gallerie napoletane e ha partecipato ad una residenza artistica presso la Fondazione Morra. Nel frattempo, scrive per riviste di settore.
Luisa Macario
14 Aprile
Articolo veramente interessante e ottimamente condotto, complimenti!