Si è conclusa da poco la mostra collettiva “Unusual Material and Forms for a New Aesthetic” presso Primo Marella Gallery. La mostra, volta a sottolineare la complessità delle arti in Africa, ha esposto una connessione tra artisti, di diverso contesto e formazione, che utilizzano la forma e la materia come strumenti di indagine, attraversando le diverse politiche presenti nei propri Stati. Le pratiche innovative dei sei artisti provenienti da Mali, Nigeria, Zimbabwe e Madagascar si sono incontrate per richiamarne le particolarità. Spiccava nell’esposizione milanese il lavoro di Troy Makaza, selezionato per rappresentare il Padiglione dello Zimbabwe alla 60esima Biennale di Venezia.
La sua singolare pratica artistica ricava grandi “illustrazioni scultoree” dall’accostamento di siliconi industriali infusi con inchiostri e vernici. Questo materiale produce un composto malleabile che può essere colato, intrecciato e legato. Makaza lo utilizza per sovrapporre pittura e scultura. Tavolate, alimenti e, alle volte, sostanze stupefacenti emergono dalle sue sculture murarie. Il filtro del cibo e della dieta evoca una delle tante sfide dello Zimbabwe, un paese alla ricerca della modernità e che l’artista concettualizza dividendo in osservazione tradizionale e impostazione contemporanea. Dalla sua nazione preleva sia le usanze, come l’intreccio presente negli arazzi antichi, sia una volontà di innovazione. «Il mezzo è intimamente legato al mio lavoro su diversi livelli. Innanzitutto, metto assieme un mezzo artistico tradizionale con uno nuovo. Questo è un aspetto che sono molto consapevole di fare come artista contemporaneo dello Zimbabwe, unendo la tradizione con la pratica contemporanea. In secondo luogo, questo mezzo mi permette di muovermi tra la scultura e la pittura e di rompere le categorie stabilite da persone che non sono noi, quindi in un certo senso è come se affermassi il mio diritto di artista di determinare come sono visto e di non permettere a me stesso o ai miei contenuti di essere categorizzati. Il mio soggetto è altrettanto fluido e si muove tra astrazione e figurazione perché nessuna delle due categorie è, di fatto, pura e la formalità di queste definizioni non ha senso per me» spiega l’artista. Makaza fa politica sociale. Uno dei temi che più incrementa le sue lotte è il tema dell’avidità e della privazione delle risorse da parte di predatori coloniali o capitalistici, risorse di cui peraltro lo Zimbabwe è molto ricco. La politica seducente ma corrosiva è qui messa a nudo dall’artista, portando i movimenti di protesta nel contesto artistico e sociale. Ne abbiamo parlato in questa intervista.
Alessia D’introno: Quali sono i temi sociali o politici dello Zimbabwe che ritornano nei tuoi lavori?
Troy Makaza: Il bestiame, la terra e il grano rappresentano la ricchezza nella maggior parte delle culture africane; nel mio lavoro questi tre elementi giocano un ruolo importante nel mostrare le lotte di potere all’interno dei miei spazi immaginari. Negli ultimi anni mi sono dedicato alla politics of the stomach come tema principale. Cerco di trovare un equilibrio sul modo in cui il potere e le risorse sono condivisi o assegnati nei contesti sociali. L’impatto di queste lotte per il potere ha avuto un effetto enorme sulla mia generazione, soprannominata “born free generation” (i nati dopo il 1980, quando lo Zimbabwe ha ottenuto l’indipendenza); si tratta di esperienze personali influenzate dall’ambiente circostante, dalle aspettative della società all’impatto dell’aumento del costo della vita. Non è solo una questione di sopravvivenza quotidiana, ma anche di come trovare ordine nel caos.
Tra le opere presentate all’esposizione milanese, “Meaning responsability and contentment pt.3” veicola infatti una riflessione su questa politics of the stomach, sul cibo.
Per me il cibo è un linguaggio universale che determina lo status sociale di qualsiasi individuo o Stato. La nostra dieta quotidiana può essere influenzata dalla disponibilità di risorse e trovo che ci siano molte politiche che controllano chi riceve cosa e quando.
Da dove nasce la pratica delle opere tessute con corde di silicone dipinte?
Il silicone infuso con fili di vernice è solo uno modo per esprimere le mie riflessioni e le mie idee. Ho iniziato a pensare a come trasformare al meglio il materiale rispetto al suo uso originale. Trasformarlo in corde e fare dei nodi è diventato un modo per simboleggiare la forza del numero e i legami sociali all’interno del mio Paese. Alcune corde sono state incollate insieme in modo da ricordare le linee di coltivazione e questo parla di come la terra e l’agricoltura siano direttamente collegate alla storia e all’esistenza della nazione.
Per concludere: una curiosità sul futuro. Quali sono le tematiche principali che introdurrai alla 60sima Biennale di Venezia?
Per la Biennale di Venezia potete aspettarvi più forma e consistenza e una delle mie prime sculture in silicone free standing. Reintrodurrò temi attuali, ma da una prospettiva diversa: ho fatto ricerche sulla storia della Rhodesia coloniale e su alcune analogie con l’attuale repubblica. A questo punto l’obiettivo è il patriottismo.
Alessia D’Introno
Info:
Alessia D’introno è laureata in Arti Visive e attualmente frequenta il biennio specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali presso Nuova Accademia di Belle Arti, NABA, Milano. Scrive per la rivista cartacea e online Juliet Art Magazine. Il suo lavoro critico è incentrato sulla demolizione di paradigmi storici ai quali l’Italia e l’Europa sono legate da secoli. La pratica de-coloniale della sua ricerca sviluppa un confronto e un’apertura verso nuove metodologie e possibilità.
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